Storia di gente normale .

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Storia di gente normale .

 

I.

La “ necropoli “  di Ain el-Labakha a 200 Km ad ovest del Nilo, nell’oasi del el- Karga, alla quale è difficile accedere, se non offre al visitatore particolari attrattive ,  ci dice molto sulla vita degli antichi Egiziani più di quanto non potrebbe fare la letteratura dei testi geroglifici .

Ain el-Labakha era un villaggio di contadini egiziani vissuti tra il I e il  III secolo d.C. ,  ai confini dell’impero romano .  Vi risiedevano probabilmente anche soldati romani con le rispettive famiglie, come sembra testimoniare la presenza dei resti di un’antica fortezza . La popolazione si componeva di 500, forse di 100 abitanti,  che dovevano sopravvivere con risorse pittosto  modeste :  uomini, donne e bambini lavoravano in modo duro, soffrivano fisicamente, ma credevano in una vita dopo la morte.  Per questo praticavano l’imbalsamazione che un tempo, nell’apogeo della civiltà egiziana ( tra il 1500 e il 1000 a.C. ) , era invece riservata ai faravoni, ai loro congiunti e ai loro dignitari .

 

II.

Il  sito di Ain el-Labakha si trova nella grande oasi di el- Karga, 200 Km ad ovest del Nilo, a sud-ovest di Luxor. Immersi in un paesaggio desertico, si conservano i resti di due tempi in mattoni crudi – uno dei quali scavato per metà nella roccia, – una fortezza e, soprattutto, una necropoli che conta una cinquantina di tombe, scavata in una ripida parete rocciosa. In queste tombe, i corpi degli antichi abitanti , ben conservati grazie alla “ mummificazione “ , hanno potuto rivelare informazioni   preziose .

Più che all’architettura e agli arredi funerari , l’attenzione va rivolta alle “ mummie “ , facendo di fatto  “ rivivere“ gran parte della popolazione che viveva ad Ain el-Labakha all’epoca di Cristo.

Il vantaggio di poter osservare- photografare “ in loco “  delle mummie risiede nella possibilità di poter succesivamente esaminare, nel fluire del tempo, non in loco , a mezzo studi-osservazioni photografici,   una “ popolazione omogenea “  di cui si conosce in modo preciso la provenienza, diversamente dallo studio-osservazione delle  ricerche svolte nei musei, su mummie isolate.

Inoltre, dalle “ photo “  scattate,  a distanza più che ravvicinata in loco ,  è possibile ( entro certi ragionevoli limiti) poter eleborare, a mezzo tecnologia informatica,  una (ri)costruzione computerizzata della “ radigrafia “  delle mummie che fornisce informazioni preziose : essa permette, per esempio, di determinare l’età della morte, la causa del decesso, lo stato di salute dell’individuo; ma anche, partendo da questi dati , le sue attività, le sue condizioni di vita e la sua classe sociale. In tal modo, è  possibile osservare le “ colonne vertebrali bloccate dai reumatismi “ , segno di intense attività fisiche, come il trasporto di carichi pesanti, attività  propria dei “ fallah” , dei  contadini.

Con la  (ri)costruzione computerizzata della   “ radiografia “ si ha, anche, la facoltà di poter dimostrare  che molti contadini di Ain el-Labakha sono morti di “ bilharziosi “ , una malattia parassitaria che si contrae lavorando con i piedi nell’acqua ; non si può avere prova più chiara del ricorso ad   un’ “ agricoltura d’irrigazione “ .  Quattro mummie di una stessa tomba presentano tracce di “ tubercolosi “ .  E la presenza di tracce di tubercolesi fa pensare, forse non a torto, che queste quattro mummie appartengono alla stessa famiglia, confermando l’ ipotesi che le sepolture familiari siamo state  numerose .

Un altro dato che scarurisce dagli studi- osservazioni radiologiche, svolti sulle mummie di Ain el-Labakha,   riguarda le “ lesioni dovute ad un arresto della crescita “ .  Queste tracce presenti sullo scheletro testimoniano che l’individuo , durante uno o più periodi della sua infanzia, soffrì di malnutrizioni o di malattie.  E queste lesioni, dovute ad un arresto della crescita, sono un indicatore della “ classe sociale “ , perché sono parametri che non possono mentire. Si potrà, anche, affermare che ad Ain el-Labakha  andava tutto a gonfie vele : ma se si trovano lesioni dovute ad un arresto della crescita sappiamo, senza alcun ombra di dubbio, che le persone non si nutrivano a sufficienza.

La popolazione di Ain el-Labakha era omogenea, di tipologia mediterranea, per lo più di carnagione chiara, nostante la vicinanza dell’antica Numbia e del Sudan.  Gli abitanti erano  alti in media 1,65 m, piuttosto minuti e longilinei. Era una popolazione rurale, pacifica, che si alimentava in modo relativamente corretto. Tuttavia morivano giovani : 50 anni era un’età già avanzata. E a volte si moriva di morte violenta, come dimostra il cranio di un bambino dal capo fracassato.

 

III.

I contadini e i soldati di quella remota regione a 200 Km ad ovest del Nilo, a sud-ovest di Luxor, perpetuavano fedelmente la tradizionale religione egizia e le sue pratiche funerarie. Lo splendore dei faravoni delle dinastie della valle del Nilo all’epoca non era che un ricordo, e il Paese aveva subito le successive invasioni da parte dei Persiani, dei Greci e dei Romani.  In quell’epoca tarda,  la religione tradizionale egizia inizia a trasformarsi, come la società; il cristianesimo comincia ad insediarsi in Egitto. Ma, nonostante tutto, è interessante osservare che i riti funebri rimangono gli stessi : la cultura tradizionale egizia mantiene il suo vigore.

Per tali credenze, la morte era solo un passaggio verso una seconda vita, eterna. Esse risalgono alla leggenda di Osiride, il dio dei morti. Per poter accedere al suo regno , promessa di vita eterna, l’involuicro carnale del defunto doveva restare intatto affinchè l’anima potesse riconoscerlo e ricongiungersi con esso.  In seguito si intraprende un percorso iniziatico, durante il quale il defunto ricorda le sue azioni da vivo. Per questo si ricorreva alla “ mummificazione “, che comportava l’asportazione degli organi e del cervello, l’imbalsamazione e la bendatura ; è un’arte che gli Egiziani perfezionarono nell’arco di mille anni e che i modesti abitanti di Ain el-Labakha  hanno mostrato di conoscere a menadito.

Insieme agli arredi funerari presenti nelle tombe e alle rappresentazioni delle divinità tradizionali – tra gli altri Osiride e Anubi , il dio cane , – le mummie offrono una testimonianza della persistenza di queste credenze e di questa abilità tecnica, destinata di lì a poco a scomparire ( i cristiani-copti vietarano le pratiche religiose pagane nel V secolo d.C., sotto l’imperatore Teodosio I ; la mummificazione, invece, sparì solo con la conquista araba nel VII secolo d.C. ) . Esse offrono informazioni anche sulla differenza sociale dei vivi, e non soltanto sul loro stato di salute : ritroviamo le tre classi “  di mummificazione descritte nel V secolo a. C., da Heròdotos,  delle quali la migliore era riservata, naturalmente, ai cittadini più agiati. Alcune mummie di Ain el-Labakha  avevano, così, una sottile pellicola d’oro su varie parti del corpo, ultime vestigia delle maschere d’oro dei faravoni, simbolo della divinizzazione dell’indivuduo.

 

IV.

Certo è, però, che (ri)trovarsi di fronte a qualcuno morto da 2000 anni e che sembra volerti narrare la sua vita è impressionante,  lascia attoniti.  Nella  realtà , di fronte a questi visi che hanno mantenuto intatti nel tempo lineamenti ed espresioni , è difficile rendersi conto e convincersi che si tratta solo di reperti archeologici.  Alcuni sono  sereni, altri mostrano le stimmate della sofferenza.

Messi a parte i dati prettamente storiografici, sono la personalità della gente e la sua esistenza di tutti i giorni che emergono con forza da queste mummie, quando ci si ricorda di (ri)trovarsi di fronte alle mummie di bambini e di donne . Le fonti documentali ci dicono che la mortalità infantile era elevata e che le donne morivano spesso di parto; ma una cosa è leggerlo qui, nel testo dell’espozione di questa “ Storia di gente normale “  , un’altra è il (ri)trovarsi di fronte alle mummie di questi bambini e di queste donne .

Le mummie di Ain el-Labakha, per quanto anonime e modeste, se non offrono al visitatore particolari attrattive ,  ci dicono molto sulla vita degli antichi Egiziani più di quanto non potrebbe fare la letteratura dei testi geroglifici . E così, le mummie dei “ fallah”, dei contadini, di Ain el-Labakha  ci hanno rivelato  il loro segreto senza scoperchiare le loro tombe. Gli uomini di questo inizio del XXI secolo hanno (ri)trovato , per il tempo di un breve incontro, gli uomini dell’alba dell’era cristiana, ancora dediti alla religione di un’altra civiltà; e li hanno, cercando di capire quel loro  “ noi, noi , siamo qui muti che parliamo ; e essi, essi, che sanno solo parlare  sono laggiù lontani muti nel chiarore  “ ,   rispettosamente resi al loro sonno eterno .

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L’enigma della sfinge .

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L’enigma della sfinge .

Immagini e passaggi nel mondo dei miti

 

I.

Antefatto

Chi osserva l’immagine della sfinge di Giza ( lunga 73,5 m, alta 20,22 m e larga 19,3 m di cui solo la testa è 4 m )  si rende,  subito,  conto che quella colossale realizzazione del faravone Chefren era al contempo un’immagine sacra e regale. Essa rappresenta infatti il sovrano, nel suo aspetto di divintà solare.  Quasi mille anni dopo Chefren, Tutomosi IV continuava a venerarla come una divinità e narra di quando, ancora giovane principe, aveva riposato all’ombra di quella sfinge, pressochè sepolta nella sabbia. In sogno gli era apparso il dio in essa raffigurato, che gli aveva chiesto di dissabbiare la sua immagine e gli aveva promesso la conquista del trono.

L’iscrizione che Tutomosi IV fece poi incidere sulla stele collocata tra le zampe anteriori del monumento ricorda anche il nome dell’essere divino rappresentato in quell’enorme leone dal volto umamo : un dio-Sole, che era detto Harmachis, cioè “ Horo nell’orizzonte “ , per indicare la divina potenza del faraone nel momento culminante della sua gloria, cioè, appunto, quando il sole sorge all’orizzonte .

 

II.

La figura sacrale

Nella storia di questa composita figura che ha attraversato i secoli, il primo dato importante  è la sua sacralità : in Egitto, la sfinge era un’immagine del faraone e insieme una statua divina.  Fin dal periodo più antico compaiono anche sfingi dal volto femminile, con il volto privo di barba e tratti più delicati, per raffigurare la figlia e la sposa del faravone e magnificarne similmente la loro grandezza.

Gli stessi motivi, celebrativi della potenza del faravone, portano alla diffusione della sfinge nelle contigue regioni del mondo orientale siriano, mesopotanico e anatolico, dove essa trovò buona accoglienza nelle diverse religioni e nelle varie forme espressive artistiche . Nel corso del II millennio a. C. , più precisamente, gli artigiani del Vicino Oriente raffigurarono quell’immagine del faravone, diffusa a scopi propagandistici fin nelle città costiere della Siria, adattandone la tipologia al proprio repertorio figurativo.

Restava, nelle loro opere, il carattere sacro dell’immagine. ma essa veniva ripetuta come motivo iconografico indipendente dai significati originari e veniva applicata a nuovi valori e tipologie. Ne sono un esempio le sfingi che fianchegguano il trono regale con funzione apotropaica, quelle raffigurate presso porte, altari e tombe con compiti di sorveglianza, le sfingi predatrici riprodotte nell’ atto di schiacciare i nemici o ancora le sfingi utilizzate con una più semplice valenza ornamentale, come sono  quelle rampanti in coppia intorno all’ “ albero della vita” .

Dal profilo dei modi e tempi di  questa evoluzione artistica, alla posizione classica della sfinge accovacciata, propria delle immagini dei sovrani egiziani,  si aggiunge nei Paesi del Levante quella della  “ sfinge a gradiente “ , tipica dei cilindri paleosiriani, e poi quella della sfinge seduta sulle zampe posteriori e fornita di ali vistose, elemento, quest’ultimo, desunto forse dall’immaginario di un altro essere composito,  il “grifone“ .  Come motivo figurativo, inoltre, la sfinge viene utilizzata anche nella cosidetta “ arte minore “  ( avori, sigilli, scarabei e ceramica), per la decorazione di oggetti d’ uso funerario, di gioielli e d’arredi.

Nel corso del II e del I millennio a. C., l’Egitto continua a svolgere una funzione centrale nell’elaborazione e diffusione di questo motivo, accogliendo le innovazioni che giungono dai Paesi dell’ Oriente e ricreandole in modo originale, con l’aggiunta di nuove varianti,  che da qui nuovamente  si diffondono, in base alle tipologie elaborate in Oriente; queste raggiungono Cipro, Creta, Micene, e poi Sparta, Delfi, Atene, l’Etruria e i centri fenici d’Occidente, fino alla Sardegna e all’ Iberia .

Il mondo greco, in specie, accolse con entusiasmo l’immagine orientale della sfinge, come elemento decorativo, per farne qualcosa di nuovo e di diverso significato.  I documenti greci più antichi attestano l’uso ornamentale della sfinge, per esempio su vasi protocorinzi, corinzi, rodii, laconii, milesii, cretesi, e l’attribuzione ad essa del valore sovraumano di guardiano delle tombe e dei luoghi sacri in genere; ma  presto è attestata, anche, una nuova vita per questa figura , che si trasforma in un inquietante demone femminile e s’introduce a viva forza in una tradizione mitica tanto antica quanto diffusa: quella relativa alle vicende tebane di Edipo, raccolte in una saga e cantate da poeti. E’ questa la sfinge pià famosa nel mondo classico ; è anzi “ la  “ Sfinge par excellence , al singolare, un essere dotato di personalità precisa e temibile .

 

III.

Dal  verbo “ Strozzare “

Che sia una minaccia, lo dice già il nome : “ Sfinge “ deriva dal greco   “ Sphynx “  che significa “ strangolatrice “   e indica un essere mostruoso, nato da mostri. Ci dicono Esiodo e Apollodoro che “ Sfinge nefasta “  era figlia di Echidna, l’orrido essere del caos iniziale, metà fanciulla e metà serpente che aveva partorito anche Cerbero, Chimera, Idra e Otro. Quest’ultimo si era unito in incesto a sua madre Echidna, per far nascere appunto Sfinge, che aveva un corpo di leone, testa di donna, coda di serpente e ali d’uccello. Da questo punto di vista, le descrizioni degli scrittori classici corrispondono alla tipologia attestata nell’arte già per le sfingi orientali.

Per i greci, Sfinge era femmina, tanto che Heròdotos, per descrivere le monumentali sfingi maschili egiziane, fece ricorso al termine “ androsfingi  “ ( cioè “ sfingi – uomo “  ), quasi a rimarcare la differenza tra l’Oriente e la Grecia.  Sfinge aveva, anche , doti profetiche particolari e manifestava, con una voce umana, tremedi e oscuri oracoli divini.

 

IV.

Sulla strada per Tebe

“ Vergine sottile “ , “  Cagna tessitrice di canti “ e “ Mostro delle montagne “   la chiamarono i poeti : essa sorvegliava,  dall’alto del monte Ficio,  la strada per Tebe, proponendo ai Tebani un enigma, appreso dalle Muse, e uccidendo chi non riusciva a risolverlo.

A quel tempo il trono della città di Tebe  , fondata da Cadmo, era nelle mani di Creonte, fratello della regina Giocasta e cognato di Laio;  il re legittimo, Laio,  era stato ucciso da un viandante sconosciuto. Per porre fine alle sciagure di Sfinge, Creonte aveva stabilito di offrire il trono e la mano di Giocasta a colui che fosse riuscito a risolvere l’enigma. Così erano morti i figli di Creonte, Emone e altri principi.

Udì quel bando anche Edipo, figlio di Laio e di Giocasta che tutti credevano morto e che, senza conoscerne l’identità, aveva ucciso tempo prima il re Laio, suo padre . Anche a lui   Sfinge propose cantando l’enigma : “ V’è sulla terra un essere dotato di una sola voce, che ha due, quattro e tre piedi. Solo egli cambia il suo passo, tra gli animali, pesci e uccelli. Però quando cammina appoggiandosi su più piedi, il suo corpo è più debole ? “ . Edipo, senza esitare, rispose : “ O cantante dal volto sinistro, ascolta la mia voce che mette fine ai tuoi crimini . E’ l’uomo, che appena uscito dal seno materno cammina a quattro piedi, carponi, e poi s’appoggia al bastone, come a un terzo piede, quando il peso degli anni incurva il suo capo .  “   

Ecco, l’enigma era risolto : Sfinge per lo smacco si uccise, precipitandosi dalla rupe, mentre Edipo, sicuro del suo sapere e della sua potenza, si avviava al trono di suo padre e al letto di sua madre. Sfinge era sconfitta; o almeno così credeva Edipo ( in greco antico: “ Οἰδίπους “ ,  “ Oidípūs “ ) : Oidípūs in greco significa “ l’uomo dal piede gonfio “ e anche “ colui che sa ( l’enigma ) del piede “ .

Seguendo le orme degli antichi tragediografi, di Sofoclale e d’Euripide in specie, gli studiosi moderni, da Sigmund Freud a Claude Lévi-Strauss , si sono interessati soprattutto ai temi del parricidio e dell’incesto, ponendoli al centro della vicenda edipica. E tuttavia le antiche raffigurazioni del mito suggeriscono di non sottavalutare questi momenti della narrazione a scapito di altri : gli artisti greci , e soprattutto i pittori attici del VI-V secolo a. C., preferiscono infatti raffigurare il confronto tra Edipo e Sfinge, cioè il momento dell’enigma, indubbiamente ambiguo, come ambiguo era quell’essere composito che proponeva l’indovinello.

Per gli artisti greci, il mito di Edipo ruota intorno al personaggio di Sfinge, mostro, profetessa e guardiana, che di lì, davanti alla città di Tebe, evocava e reinterpretava la storia di quella bestia favolosa che i Greci avevano attinto dall’antico Oriente , per farle assumere poi significati aggiuntivi, distanti dai valori che ne avano segnato l’origine in Egitto, ma funzionali al nuovo contesto, culturale e religioso.

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Neapolitanischen Tagebuch

migrante in tram

 

 

Neapolitanischen Tagebuch
Immagini e passaggi nella Napoli dei migranti

Li si vede, i migranti, specialmente la domenica sera. Bivaccano, condivendo l’uno con gli Altri, gli alimenti portati dalla Croce Rossa con i cestini . Non sono i migranti sbarcati sulle rive del mare dell’isola greca di Lesbo o sulle rive del mare di Lampedusa dove non pochi dei suoi abitanti sono “ gente di mare “  . E accolgono, gli abitanti di queste due isole, tutto ciò che il mare a loro può dare e tutto ciò che il mare a loro porta. Sono gli “ invisibili “  della stazione ferroviaria di Napoli Centrale. Dove arrivano i treni iperveloci, quelli dell’alta velocita, con l’etichetta più o meno tutta nuova e luccicante con la scritta “ TeniItalia “ . Ma nessuno dice loro : “  In carroza, signori si parte “, come diceva il commediografo, attore tatrale, compositore musicale, poeta e scrittore partenopeo Raffaele Viviani . Gli esseri umani si sono sempre spostati nella storia. Da soli o popoli interi, per fame di conoscenza, di cibo e di libertà. I migranti sono arrivati, ma nessuno se ne è accorto . Sono arrivati la Domenica delle Palme del 20 marzo 2016 o in un giorno di una Pasqua che non si sa quando sia arrivata . Sono moldave, russe, ucraine, georgiane, armene, rumene, bulgare, eritree, indiane, pakistane, filippine, indonesiane, ispano-amercane, cubane ( non molte ad onor del vero ) , arabe e arabi del Marocco, di Tunesia, di Algeria, “ nere “ e  “neri ”  della Costa d’Avorio, del Togo, del Camerum, della Nigeria. Alcuni migrati maghrebbini calzano sandali da cui fuoriesce la loro pelle avvizzita.

Hanno fame e sete. Hanno fame e sete di vita, di un elementare primum vivere legato alla vita che non accetta di essere subordinato, piegato, reso compatibile col primato di altre “ ragioni “ , logiche, calcoli, interessi, strategie, “ economie “ . Hanno dei telefonini cellulari coi quali comunicano con gli affetti lontani. Che a furia di stare lontani dimenticano . A volte per sempre .

I migranti sono, con la loro “ nuda vita “ , la testimonianza di come si possa fare della vita il mestiere più sicuro dell’incarnazione dei “ post-moderni Barboni “  nelle società del capitalismo contemporaneo e del liberismo mercatista . Sono i “ post-moderni Barboni “ , non i barboni . Alcuni hanno gli occhi fissi nel vuoto. Di sera e di notte. All’aba e di giorno . Raffiche di vento schiaffeggiano i volti grigioantrancite anche quando non sono neri .

Escono, più o meno a piccoli gruppi di tre o quattro o di cinque “Persone “ dal centro Better di Corso Garibaldi e di Via Imbriani . Lasciano, sparse a terra, una costellazione di bollette da 0, 50 € da 1, 00 € da 1, 50 € di sogni infranti con numeri del lotto mai usciti sulla ruota di chissà dove , giocando a rimpiattino con la vita che li ha esclusi perché non sanno. Non hanno. Non posso . Nessuno ha mai detto loro della Harvard University e della Berkeley University .

Siedono all’interno della stazione di Napoli Centrale, fingendo di aspettare il treno . Fingono di aspettare il treno, per non essere cacciati dalla stazione. Ma anche per loro , come per Estragone e Vladimiro, il loro “ En attendant Godot ” non arriverà. Il “signor “ Godot non arriverà.

Hanno tante età sui corpi e sui volti senza età. Delle lattine di birra fra le mani tra Piazza Garibaldi e i vicoli del “ Rettifilo “ ( Corso Umberto) , tra Via Cesare Rosaroll e Porta Nolana . Camminano con passo svelto, con andatura veloce, come se avessero fretta. Ma sanno che non c’è nessuno che li aspetta, che li attende. Fissi, sotto il chiaro di luna di una sera partenopea tagliano, con un temperino, delle fette da un tozzo di pane come un padre o una madre tagliano, seduti a tavola, la fetta di pane ai figli. Ma non c’è nessuna tavola , E non ci sono , neanche, né padri e né madri .

Sembra di essere a Soweto , in quell’ area urbana della città di Johannesburg, in Sudafrica, che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lotta contro l’apartheid. Ma siamo a Napoli, nella terra di una città d’Italia e nell’Europa . E le facce della terza città d’ Italia non passano da queste parti. E se vi passano li ignorano . Per non vedere. Per non sentirsi in colpa. Non sia mai “ lor signori “ con le cravatte scintillanti, i vestiti casual griffati , i sorrisi da dentifricio Durbans e da AZ 3D Ultra White al fluoro, e con le scape scarpe Nike, abbiano dei fastidi !

Lungo la strada del Corso Merdionale aspettano, i migranti, che i passeggeri a bordo di qualche macchina diano loro un saluto o quache spicciolo per un panino o per una pizza o qualche spicciolo per raggranellare, spicciolo dopo spicciolo, un gruzzoletto di pochi spiccioli per un piatto caldo di spaghetti o di minestra . Sono egiziani, capoverdiani, Rom, nigeriani, e camerumensi . Quando vendono, sul Corso Merdionale , una confezione con dieci fazzolettini di carta o puliscono i vetri delle macchine credono di aver trovato il posto di lavoro . E che la vita metta per loro i contributi per una pensione fantasiosa, immaginaria. Sorridono come nessuno sa più sorridere. Ma sono pochi i migranti che hanno trovato un posto di lavoro .

Lo sbando di Piazza Garibaldi, la situazione di crisi e confusione di quel piazzale che si apre davanti alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, aspetta. Sono donne giovani e ragazze, donne adulte, uomini giovani e ragazzi, uomini adulti. Portano i loro trolley e le loro buste di plastica così come i migranti italiani che partivano, nel dopoguerra, per andare a ricostruire le Città del NordItalia , della Baviera e della Renania, e per le miniere di carbone del Belgio portavano le loro “ valigie di cartone ” e il loro più o meno voluminoso involucro,  – la “ mappata “ , – racchiusa maldestramente in una scatola di cartone.

Ma le fette di “ pastiera “  dei migranti non hanno il sapore dolce dell’ antichissimo dolce pasquale partenopeo. E né hanno il colore giallo-oro molto intenso del suo morbido ripieno, né il sapore e il profumo morbido della ricotta del grano bollito delle uova delle spezie e dei canditi, né il suo involucro di pasta frolla che racchiude il morbido ripieno ha il sapore croccante dei millefiori . Sono loro, i migranti, i “millefiori “ che molti hanno dimenticato. Sono loro, i migranti, i “millefiori “ che squarciano il velo del loro oblio che copre pudicamente le loro dimenticanze, la loro “ rimozione “ , la loro “ perdita di memoria “  della storia italiana delle migrazioni che uscendo, da uno scaffale di una vecchia libreria, dalle pagine polverose de “ Les Fleurs du mal “  di Charles Baudelare  illuminano la ferocia della loro perdita di memoria, della loro rimozione .

Hanno, i migranti, “ Lontananze ”  che si capiscono con gli occhi, si toccano con mano. E se, talvolta, il vino delle scatole di cartone da pochi spiccioli, – la “ droga dei poveri ” , – sale troppo alla testa si azzuffano fra di loro per futili motivi, per un’ amore, per una donna, per un pezzo di cartone dove sdraiarsi sopra in qualche posto di stramacchio, nascosto , furtivamente lontano da occhi indiscreti, per ripararsi dal sole dal freddo dal vento dalla pioggia.

Nelle società del capitalismo contemporaneo e del liberismo mercatista, basta premere un dito sulla tastiera del telefonino per prenotare un biglietto per un comodo posto su di un treno o su un areo diretto a Barcellona, a Madrid, a Parigi, a Lione, a Vienna, a München . Il dito dei migranti si alza, invece, ad indicare una stella fissa . Una stella che illumina, per quanto strano possa sembrare, quei denti mal lavati, quei volti assonati e sorridenti, eppure sempre in cammino, che cercano un nuovo giorno per fame di conoscenza, di cibo e di libertà .

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Pensare l’esodo dal capitalismo .

André Gorz

 

Pensare l’esodo dal capitalismo .

Quand André Gorz découvrit la critique de la valeur
de Willy Gianinazzi

Quando André Gorz scoprì la critica del valore
di Willy Gianinazzi

Il est peu de penseurs comme André Gorz qui n’ont cessé de renouveler leur réflexion sans jamais se satisfaire du point d’arrivée, toujours provisoire. Jusqu’à son dernier jour, Gorz s’est attelé à la tâche théorique consistant à ouvrir des voies d’issue à la domination capitaliste et à la destruction du milieu de vie que cette domination implique. Décédé le 22 septembre 2007 à l’âge de 84 ans, Gorz s’est passionné dans les cinq années qui ont précédé aussi bien pour le mouvement des logiciels libres, notamment grâce à Stefan Meretz et Stefan Merten du réseau Oekonux, que pour la nouvelle théorie marxiste de la critique de la valeur. Nous choisissons ici de reconstruire le rapport intellectuel que Gorz a entretenu avec cette dernière.

Sono pochi i pensatori come André Gorz, che hanno continuato a rinnovare la propria riflessione senza mai essere soddisfatti del loro punto d’arrivo, considerato sempre provvisorio. Fino all’ultimo giorno, Gorz si è dedicato al compito teorico che consiste nell’aprire vie d’uscita dal dominio capitalista e nel distruggere le condizioni di vita che tale dominio implica. Morto il 22 settembre del 2007, ad 84 anni, Gorz si era appassionato, nei cinque anni precedenti, sia al movimento del software libero, soprattutto grazie a Stefen Meretz e a Stefen Merten della Rete Oekonux, che alla nuova teoria della critica del valore. Si sceglie qui di ricostruire il rapporto intellettuale intrattenuto da Gorz con quest’ultima.

 

La financiarisation de l’immatériel

La finanziarizzazione dell’immateriale

Le brusque arrêt de l’emballement immobilier-financier aux États-Unis en juillet 2007 et la consécutive crise bancaire internationale à l’automne 2008, qui entraînent des conséquences dramatiques pour les populations touchées, font prendre conscience à celles-ci et à l’opinion publique en général qu’avec la mondialisation, l’économie est entrée dans l’ère de la financiarisation à outrance. Mais cet avènement est plus ancien puisqu’il avait déjà causé la bulle Internet (pullulement de start-up surévaluées) qui avait provoqué le gigantesque krach boursier de 2001-2002. Aussi est-ce depuis des années qu’André Gorz tente de décrire ce nouveau chemin pris par le capitalisme postfordiste. Bien informé, il en préfigure les crises et suppute même l’effondrement systémique vers lequel il semble conduire irrésistiblement.

Il brusco arresto del boom immobiliare-finanziario avvenuto negli Stati Uniti nel luglio 2007, e la consecutiva crisi bancaria internazionale nell’autunno 2008, che hanno portato a conseguenze drammatiche per le popolazioni che ne sono state colpite, hanno fatto prendere coscienza del fatto, all’opinione pubblica in generale, che con la globalizzazione l’economia è entrata nell’era della finanziarizzazione ad oltranza. Ma un tale avvento della finanziarizzazione risale a prima, dal momento che aveva già causato la bolla di Internet (il proliferare di start-up sopravvalutate) che aveva provocato il gigantesco crack borsistico del 2001-2002. Sono gli anni in cui André Gorz cerca di descrivere questa nuova strada presa dal capitalismo post-fordista. Ben informato, ne prevede la crisi e ipotizza anche il collasso sistemico verso il quale sembra portare inevitabilmente.

Au capital – résumons-nous –, il n’a pas suffit de casser les solidarités ouvrières dans la seconde moitié des années soixante-dix pour restaurer le taux de profit par la diminution drastique du coût du travail. La robotisation installée, il a fallu pousser plus avant l’usage rationnel des ordinateurs par une reconfiguration (reengineering) des postes de travail dans tous les secteurs, ce qui a permis de réduire encore plus la main-d’œuvre pendant les années quatre-vingt-dix. Le résultat a été paradoxal. Pour le comprendre, il faut revenir à la théorie marxiste de la valeur-travail. Puisque « la quantité moyenne de travail abstrait cristallisé dans des marchandises est, en dernière analyse, ce qui détermine le rapport d’équivalence – la valeur d’échange – des marchandises (1) », il a été inéluctable qu’« avec la contraction du volume de travail matériel, la valeur d’échange des produits a tendu à baisser, ainsi que le volume des profits (2) ». Quant à l’extension des services à la personne, sur laquelle des économistes et des syndicalistes ont compté pour relancer l’économie et l’emploi, elle a monétarisé des activités qui ne produisent pas de valeur : « Leur rémunération provient du revenu que leurs clients ont tiré du travail productif, c’est un revenu secondaire (3) ». La parade a été trouvée en valorisant les produits immatériels de l’intelligence, celle-ci étant devenue un facteur de production décisif. Mais ces produits n’étant pas des marchandises ordinaires avec une valeur d’échange déterminée, elle n’a été possible, qu’au prix d’artifices techniques ou de marketing aboutissant à une rente de monopole sans rapport avec la valeur-travail, plus que jamais caduque. Comme le dit Gorz, et à sa suite les économistes post-opéraïstes Carlo Vercellone et Christian Marazzi, le profit se mue en rente. C’est cette rente, fondée sur des valeurs virtuelles et volatiles parce que non mesurables, qui va permettre de sauvegarder la rentabilité du capital. C’est elle aussi qui rend le capitalisme contemporain extrêmement instable et vulnérable, et l’expose à ses propres limites.

Per il capitale – riassumendo – non era più sufficiente spezzare la solidarietà operaia, come aveva fatto nella seconda metà degli anni 1970, per riuscire a ripristinare il tasso di profitto per mezzo della diminuzione drastica del costo del lavoro. La robotizzazione ha dovuto spingere ulteriormente l’utilizzo razionale dei computer ai fini di una riconfigurazione (reengineering) dei posti di lavoro in tutti i settori, cosa che ha permesso di ridurre ancora di più la manodopera nel corso degli anni 1990. Il risultato è stato paradossale. Per comprenderlo, bisogna tornare alla teoria marxiana del valore-lavoro. Dal momento che “la quantità media di lavoro astratto cristallizzato nelle merci è, in ultima analisi, ciò che determina il rapporto di equivalenza – il valore di scambio – delle merci” ( 1) , era inevitabile che “con la contrazione del volume del lavoro materiale, il valore di scambio dei prodotti tendesse a diminuire, così come il volume dei profitti” ( 2) . Per quel che riguarda l’estensione dei servizi alle persone, su cui contavano gli economisti ed i sindacalisti per poter rilanciare l’economia e l’occupazione, essa ha monetarizzato delle attività che non producevano alcun valore. “La loro remunerazione proviene dal reddito che i clienti di questi servizi traggono dal lavoro produttivo, si tratta di un reddito secondario” (3) . Il rimedio è stato trovato nel valorizzare i prodotti immateriali dell’intelligenza, che sono divenuti un fattore decisivo di produzione. Ma questi prodotti dal momento che non sono delle merci ordinarie con un valore di scambio determinato, questo era possibile solo grazie ad artifici tecnici o di marketing e portavano ad una rendita di monopolio senza alcun rapporto con il valore-lavoro, più che mai caduco. Come ha detto Gorz, ed al suo seguito gli economisti post-operaisti Carlo Vercellone e Christian Marazzi, il profitto si muta in rendita. E’ tale rendita, fondata su dei valori virtuali e volatili in quanto non misurabili, che permette di salvaguardare la redditività de capitale. E è anche quella che rende il capitalismo contemporaneo estremamente instabile e vulnerabile, e lo espone ai suoi propri limiti.

La cote en bourse des valeurs issue de cette économie de l’immatériel, c’est-à-dire les prévisions de leur rentabilité, va être leur « vraie » valeur. Aussi Gorz peut-il déclarer : « La valeur du capital immatériel est essentiellement une fiction boursière (4) . » La financiarisation est dès lors en marche. Les profits s’orientent vers les placements financiers et, délaissant les investissements, alimentent de moins en moins l’accumulation du capital fixe (équipements) et variable (salaires). « Les idéologues de gauche » qui prétendent voir dans la financiarisation « une activité parasitaire, phagocytant l’économie réelle, ignorent la réalité des faits » : « L’achat et la vente de capital fictif sur les marchés boursiers rapportent plus que la valorisation productive du capital réel ( 5 ) . » Dès 1997, Gorz s’exclame :

La quotazione in borsa dei valori provenienti da quest’economia dell’immateriale, vale a dire le previsioni sulla loro redditività, diventano il loro “vero” valore. In questo modo Gorz può dichiarare: “Il valore del capitale immateriale è essenzialmente una finzione borsistica” (4 ) . Da quel momento la finanziarizzazione è in marcia. I profitti si orientano verso gli investimenti finanziari e, abbandonando gli investimenti, alimentano sempre meno l’accumulazione di capitale fisso (macchinari) e variabile (salari). “Gli ideologhi di sinistra” che pretendono di vedere nella finanziarizzazione “un’attività parassitaria, che fagocita l’economia reale, ignorano la realtà dei fatti: “L’acquisto e la vendita di capitali fittizio sui mercati azionari danno più profitti di quanto ne dia la valorizzazione produttiva del capitale reale” ( 5) . E’ il 1997, quando Gorz esclama:

Du moment que le capital se financiarise, il ne sait plus quoi faire de la plus-value produite ! Aujourd’hui, l’argent cherche à produire de l’argent sans passer par le travail ( 6) .

” Dal momento che il capitale si finanziarizza, non sa più che fare con il plusvalore prodotto! Oggi, il denaro cerca di produrre denaro senza passare dal lavoro.” ( 6)

Il s’ensuit, écrit-il dix ans plus tard au moment où éclate la bulle immobilière, que « l’économie réelle devient un appendice des bulles spéculatives entretenues par l’industrie financière », laquelle ne génère que de l’argent « par des opérations de plus en plus hasardeuses et de moins en moins maîtrisables sur les marchés financiers  (7) ». La production de marchandises valorisant toujours moins de travail et mettant toujours moins de moyens de paiement en circulation, le maintien de la consommation ne devient possible que par le crédit accordé aux ménages, qui est désormais le moteur principal de la « croissance ». Comme le montre la bulle des emprunts immobiliers aux États-Unis, « la croissance est obtenue par la création monétaire, gagée sur des actifs fictifs, affectée à la consommation américaine et non à l’accumulation » ; répercutant l’annonce, faite avec deux ans d’avance par le président de la Banque fédérale américaine (FED), du fatal éclatement de cette bulle, il prédit à la fin de l’été 2005 : « Nous allons vers un slump [marasme] et une crise de tout le système de crédit ( 8 ) . » Sa sagacité est certaine. À une date imprécisée, il émet cette sombre prédiction :

Ne consegue, scrive dieci anni dopo al momento in cui scoppia la bolla immobiliare, che “l’economia reale diventa un’appendice delle bolle speculative alimentate dall’industria finanziaria”, la quale genera soltanto denaro “per operazioni sempre più d’azzardo e sempre meno controllabili sui mercati finanziari” (7 ) . Con la produzione di merci che valorizza sempre meno il lavoro e mette in circolazione sempre meno mezzi di pagamento, il mantenimento del consumo diventa possibile soltanto attraverso il credito concesso alle famiglie, diventato ormai il motore principale della “crescita”. Come dimostra la bolla dei mutui immobiliari negli Stati Uniti, “la crescita viene ottenuta per mezzo della creazione monetaria, emessa a partire da attività fittizie, distribuiti al consumo americano e non all’accumulazione”; riflettendo sull’annuncio, fatto con due anni d’anticipo dal presidente della Banca Federale Americana (FED), sul fatale scoppio di questa bolla, predice per la fine dell’estate del 2005: “Stiamo andando verso un crollo ed una crisi di tutto il sistema di credito.” ( 8 ) . La sua perspicacia è fuori discussione. In una data imprecisata, fa questa predizione:

En ce qui concerne la crise économique mondiale, nous sommes au début d’un processus long qui durera encore des décennies. Le pire est encore devant nous, c’est-à-dire l’effondrement financier de grandes banques, et vraisemblablement aussi d’États  (9 ) .

” Per quanto concerne la crisi economica mondiale, ci troviamo all’inizio di un lungo processo che durerà ancora decenni. Il peggio è ancora davanti a noi, ossia il collasso finanziario delle grandi banche, e verosimilmente anche degli Stati.”  ( 9 )

 

Critique de la valeur et théorie de la crise

Critica del valore e teoria della crisi

 

Depuis les Métamorphoses du travail (1988), Gorz a fait beaucoup de chemin. Dans ce livre prolixe, il s’efforçait de tracer les contours de l’autonomie pour mieux s’accommoder de l’inévitabilité et même du bien-fondé de l’hétéronomie économique. Dans Capitalisme, socialisme, écologie (1991), il sacrifiait à la thèse de Karl Polanyi d’un réencastrement de l’économie dans la politique et la société, avec là aussi le souci de sauver la raison économique bien comprise. Dans Misères du présent, richesse du possible (1997), enfin, l’autonomie créatrice restait dépendante de la circulation marchande par la distribution de moyens de paiement sous forme d’allocation universelle. Ce faisceau de solutions, incompatibles avec la domination du capital mais non pas avec sa survie, sont maintenant balayées : dans la mesure où l’économie capitaliste se meurt, c’est au plus profond de la crise de la valeur que gronde le péril de la barbarie, mais aussi où se logent les ferments d’une autre économie, sans marchandises, fondée sur des richesses immensurables, et qu’il s’agit de rendre possible et de faire croître.

Dopo il suo libro del 1988, ” Le metamorfosi del lavoro”, Gorz ne ha fatta di strada. In questo libro prolisso, si sforza di delineare i contorni dell’autonomia per gestire meglio l’inevitabilità e anche la fondatezza dell’eteronomia economica. In ” Capitalismo, socialismo, ecologia” (1991), accoglie la tesi di Karl Polanyi di un reincastramento dell’economia nella politica e nella società, anche con il desiderio di salvare la ragione economica. In “Miserie del presente, ricchezza del possibile “ (1997), alla fine, l’autonomia creatrice rimane indipendente dalla circolazione delle merci attraverso la distribuzione di mezzi di pagamento sotto forma di reddito universale. Questo insieme di soluzioni, incompatibili con il dominio del capitale ma non con la sua sopravvivenza, vengono esplorate: nella misura in cui l’economia capitalista sta morendo, è nel più profondo della crisi del valore che si muove il pericolo della barbarie, ma anche dove si annidano i semi di un’altra economia, senza merci, fondata su delle ricchezze incommensurabili, ed è questa che dev’essere resa possibile e deve crescere.

Cette radicalisation manifeste de sa pensée, encore en herbe lors de la rédaction de L’immatériel (2003) mais déjà saillante les mois suivants avec la réécriture de sa version en allemand, fait suite à de nouvelles lectures que Gorz entreprend à partir de 2002. Il s’agit principalement d’ouvrages de Moishe Postone et de Robert Kurz qui lui font découvrir les thèses du courant marxiste de la « critique de la valeur » ( Wertkritik ). Kurz, essayiste et journaliste indépendant prolifique, est le fondateur à Nuremberg de la revue de cette mouvance qui en 1990 prend le nom de Krisis. Merten fait partie du groupe Krisis, mais incompris dans sa bataille pour les logiciels libres, s’en écarte pour fonder Oekonux. Si Gorz connaît déjà, de Kurz, son volumineux Livre noir du capitalisme (Schwarzbuch des Kapitalismus , 1999) et, de Postone, l’édition anglaise originale de Temps, travail et domination sociale (1993), c’est par Meretz, lui aussi membre de Krisis, que, peu après la première lettre de celui-ci en 2003, il reçoit plusieurs numéros d’un périodique publié à Vienne, Streifzüge, qui contenait, outre ses propres contributions, celles des membres du groupe Krisis. Streifzüge est une autre revue de ce courant, qu’a fondée le journaliste Franz Schandl en 1996. Par rapport à l’évolution de Kurz, qui en 2004 s’arcboute sur la primauté de la critique théorique pour faire scission et créer la revue Exit, la revue de Schandl met l’accent, à l’égal des continuateurs de Krisis, sur les expériences concrètes susceptibles de mettre en œuvre la critique du travail et de la marchandise. Gorz s’abonne à Streifzüge en décembre 2003. À partir de cette date, il correspond longuement avec Schandl jusqu’à l’avant-veille de sa propre mort en septembre 2007 (10) . Il est aussi en contact avec un autre rédacteur de Streifzüge, l’écologiste déjà membre d’ATTAC-Autriche Andreas Exner, qui lui demande à l’été 2006 une contribution pour un ouvrage collectif sur le revenu de base ( 11) . Cet article est le plus « kurzien » de tous ceux écrits par Gorz. Achevé en janvier 2007, il est anticipé durant l’été dans Streifzüge et, traduit et amplifié, dans Mouvements avec le titre « Penser l’exode de la société du travail et de la marchandise ». Mais en juillet, Gorz confie à Exner avec regret : « C’est bien trop tard que j’ai découvert le courant de la critique de la valeur ( 12 ) . »

Questa evidente radicalizzazione del suo pensiero, ancora all’inizio nel corso della redazione de “L’immateriale “ (2003) ma che già emergeva nei mesi successivi dopo la riscrittura della versione in tedesco, fa seguito a delle nuove letture intraprese da Gorz a partire dal 2002. Si tratta principalmente di opere di Moishe Postone e di Robert Kurz che gli fanno scoprire le tesi della corrente marxiana della “critica del valore” ( Wertkritik ). Kurz, prolifico saggista e giornalista indipendente, è il fondatore a Norimberga della rivista di questo movimento che nel 1990 prende il nome di Krisis. Merten fa parte del gruppo Krisis, ma è incompreso nella sua battaglia per il software libero e abbandona il gruppo per fondare Oekonux. Anche se Gorz già conosceva, di Kurz, il suo voluminoso “Libro nero del capitalismo” (Schwarzbuch des Kapitalismus, 1999), e di Postone, l’edizione originale inglese di ” Tempo, lavoro e dominio sociale”, è grazie a Meretz, anche lui membro di Krisis, che, poco dopo la prima lettura fatta nel 2003, entra in possesso di alcuni numeri di un periodico pubblicato a Vienna, Streifzüge, che contiene oltre ai propri contributi, quelli dei membri del gruppo Krisis. Streifzüge è un’altra rivista di quella corrente, fondata dal giornalista Franz Schandl nel 1996. Rispetto all’evoluzione di Kurz, che nel 2004 si impunta riguardo al primato della critica teorica e attua un scissione creando la rivista Exit !, la rivista di Schandl pone l’accento, allo stesso modo dei continuatori di Krisis, sulle esperienze concrete suscettibili di attuare la critica del lavoro e delle merci. Gorz si abbona a Streifzüge nel dicembre del 2003. A partire da tale data, corrisponde a lungo con Schandl fino alla vigilia della sua morte nel settembre del 2007- ( 10) . E’ in contatto anche con un altro redattore di Streifzüge, ‘ecologista già membro di ATTAC-Austriaco Andreas Exner, che nell’estate del 2006 gli chiede un contributo ad un’opera collettiva sul reddito di base. (11 ) Questo articolo è il più “kurziano” fra tutti quelli scritti da Gorz. Completato nel gennaio 2007, viene pubblicato in anteprima, in estate su Streifzüge e poi, ampliato e tradotto, su Mouvements con il titolo “Pensare l’esodo dalla società del lavoro e della merce”. Ma a luglio, Gorz confida a Exner, rammaricandosene: ” Ho scoperto troppo tardi la corrente della critica del valore . “  (12)

En faisant allusion à Postone et Kurz, Gorz pense avoir repris dans ses articles récents « l’essentiel des orientations de ces kurziens originels, y reconnaissant une élaboration théorique des (s)iennes propres (13) ». Et à l’envoi de l’article destiné à Mouvements, un représentant français de cette école, Gérard Briche, lui répond en juin 2007 : « La convergence de vos analyses avec celles de la Wertkritik sont toujours plus manifestes (…)  et le fait que, ayant mené une réflexion de manière autonome, nous arrivions à des conclusions analogues, constitue une puissante confirmation des analyses que nous présentons, et qui sont largement contre le courant dominant de la pensée dite “de gauche” (14) . »

Facendo riferimento a Postone e Kurz, Gorz ritiene di aver ripreso nei suoi articoli recenti “l’essenziale degli orientamenti di quei kurziani originali, riconoscendo un elaborazione teorica a loro propria”. (13 ) E in seguito all’invio dell’articolo destinato a Mouvements, un rappresentante francese di quella scuola, Gérard Briche, gli risponde nel giugno 2007: “La convergenza delle vostre analisi con quelle della Wertkritik sono sempre più evidenti (…)  ed il fatto che, portando avanti una riflessione in maniera autonoma, si pervenga a delle conclusioni analoghe, costituisce una potente conferma delle analisi che presentiamo, e che sono largamente contro la corre dominante del pensiero definito ‘di sinistra’.” (14 )

À plusieurs égards, les convergences sont frappantes (15). Gorz tient en haute estime la réinterprétation de la théorie critique de Marx faite par Postone, un historien canadien enseignant à Chicago qui est une des sources du courant de la critique de la valeur. Dans son livre, Postone, qui s’appuie sur les Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, pose le travail comme principe social d’organisation qui est propre au seul capitalisme. Il s’élève, comme Gorz le fait depuis les Adieux au prolétariat (1980), contre le marxisme traditionnel qui critique le capitalisme à partir du point de vue du travail, c’est-à-dire en remettant en cause les rapports de propriété et non les forces productives façonnées par le capitalisme industriel, et auxquelles appartiennent autant le travail que le capital. Défendre le travail, comme l’a fait le mouvement ouvrier (Postone), ou défendre l’idéologie du travail, comme le fait la gauche (Gorz) est réactionnaire. Le rapport à l’argent fournit un éclairage. En tant que véhicule de la valorisation, la monnaie est un fétiche qui oppose en apparence le travail et le capital (intérêts pécuniaires opposés) mais qui les assemble en réalité dans la même logique abstraite du capitalisme. Dans cette veine postonienne, Gorz explique :

Sotto molti aspetti, le convergenze sono sorprendenti. (15) . Gorz ha molta stima della reinterpretazione della teoria critica di Marx fatta da Postone, uno storico canadese che insegna a Chicago e che è una delle fonti della corrente della critica del valore. Nel suo libro, Postone, che si basa sui Grundrisse, pone il lavoro come principio sociale di organizzazione che è proprio al solo capitalismo. Si schiera, come ha fatto Gorz a partire dal suo “Addio al proletariato” (1980), contro il marxismo tradizionale che critica il capitalismo a partire dal punto di vista del lavoro, cioè a dire rimettendo in discussione i rapporti di proprietà e non le forze produttive modellate dal capitalismo industriale, e a cui appartengono tanto il lavoro quanto il capitale. Difendere il lavoro, come ha fatto il movimento operaio (Postone), o difendere l’ideologia del lavoro, come ha fatto la sinistra (Gorz), è reazionario. Il rapporto con il denaro fornisce un chiarimento. In quanto veicolo della valorizzazione, la moneta è un feticcio che oppone apparentemente il lavoro ed il capitale (interessi pecuniari opposti) ma che in realtà li riunisce nella medesima logica astratta del capitalismo. In questa vena postoniana, Gorz spiega:

Travail et capital sont fondamentalement complices par leur antagonisme pour autant que “ gagner de l’argent” est leur but déterminant. Aux yeux du capital, la nature de la production importe moins que sa rentabilité ; aux yeux du travailleur, elle importe moins que les emplois qu’elle crée et les salaires qu’elle distribue. Pour l’un et pour l’autre, ce qui est produit importe peu, pourvu que cela rapporte. L’un et l’autre sont consciemment ou non au service de la valorisation du capital  (16 ) .

 Lavoro e capitale sono fondamentalmente complici nel loro antagonismo per il fatto che “guadagnare denaro” è il loro obiettivo che li determina. Agli occhi del capitale, la natura della produzione ha meno importanza della sua redditività; agli occhi del lavoratore, ha meno importanza ciò che il suo lavoro crea rispetto al salario che gli conferisce. Per l’uno e per l’altro, quello che viene prodotto ha poca importanza, purché dia un buon reddito. L’uno e l’altro sono consciamente o inconsciamente al servizio della valorizzazione del capitale . (16 )

L’interprétation de Postone intéresse Gorz aussi sur un autre plan, qui le renforce dans ses réflexions sur la possible création de richesse en dehors de la forme valeur. Se référant à un économiste réfractaire à ses propres thèses, Gorz écrit à une correspondante :

L’interpretazione di Postone interessa Gorz anche su un altro piano, che lo rafforza nelle sue riflessioni sulla possibilità di creare ricchezza al di fuori della forma valore. Riferendosi ad un economista refrattario alle sue tesi, Gorz scrive in una lettera:

Conseillez-lui de lire Postone. Il apprendra que la différence entre valeur et richesse n’est pas ce qu’il croit, qu’il y a des richesses créées par l’activité humaine qui sont sans valeur (au sens de l’économie politique) parce qu’elles ne sont ni accumulables, ni échangeables, ni monétarisables (donc non capital-productives dans leur but premier) et que les “valeurs intrinsèques” n’ont rien à voir avec l’économie néo-classique mais renvoient aux [Fondements] de la métaphysique des mœurs de Kant où on lit : “Ce qui a un prix n’a qu’une valeur relative et non une dignité, car cela est échangeable contre toute autre chose. Mais ce qui n’a pas de prix et donc n’est pas échangeable a une dignité, une valeur absolue (17 ) .”

” Consigliategli di leggere Postone. Apprenderà che la differenza fra valore e ricchezza non è quella che crede, che ci sono delle ricchezze create dall’attività umana che sono senza valore (nel senso dell’economia politica) dal momento che non sono né accumulabili, né scambiabili, né monetizzabili (quindi non produttive di capitale nel loro fine primario) e che i ‘valori intrinsechi’ non hanno niente a che vedere con l’economia neo-classica ma rimandano ai [Fondamenti] della metafisica dei costumi di Kant dove si legge: ‘Ciò che ha un prezzo ha solo un valore relativo e non un dignità, dal momento che è scambiabile contro qualsiasi altra cosa. Ma ciò che non ha prezzo e quindi non è scambiabile ha una dignità, un valore assoluto’. “  (17 )

Gorz ne tarit pas d’éloges sur Robert Kurz, dont il aimerait, qu’à l’égal de Postone, l’on traduise en France les derniers livres. En faisant ce vœu auprès des éditions de La Découverte, qui lui proposaient en vain de publier un recueil de ses propres écrits, Gorz le définit comme un « théoricien de premier ordre de la métamorphose du capitalisme et des dimensions de sa crise », ajoutant qu’il « est le principal rival et antagoniste de Toni Negri (qui ne lui arrive pas à la cheville en matière d’érudition et de capacité théorique) (18 ) ». Autour de novembre 2005, il prend connaissance de son « chef-d’œuvre » « Le capital-monde » ( Das Weltkapital, 2005) (plus tard aussi des Aventures de la marchandise – 2003 – d’Anselm Jappe qui s’inscrit dans ce même courant théorique). Grâce à Kurz, Gorz reconnaît la fonction vitale des bulles financières pour la survie du système (19) et se trouve conforté dans l’idée que la crise n’est pas due aux excès de la finance, mais « à l’incapacité du capitalisme de se reproduire (20) » – Kurz reproche à ATTAC de ne pas le comprendre. Le capitalisme atteint ainsi ses limites internes. Le nœud du problème résidant, comme Gorz le dit au moins depuis Les chemins du paradis (1983), dans ladite troisième révolution industrielle :

Gorz non manca di elogi per Robert Kurz, di cui amerebbe, così come per Postone, venissero tradotti in francese gli ultimi libri. Con questa speranza, propone invano alle edizioni La Découverte di pubblicare una raccolta dei suoi scritti, definendolo come un “teorico di prim’ordine della metamorfosi del capitalismo e delle dimensioni della sua crisi”, aggiungendo che “è il principale rivale ed antagonista di Toni Negri (che non gli arriva nemmeno alla caviglia in termini di erudizione e di capacità teorica).” (18) Intorno al novembre del 2005, viene a conoscenza del suo “capolavoro”, “Il capitale mondiale “ (Das Weltkapital, 2005) (e più tardi anche delle “Avventure della merce” (2003) di Anselm Jappe, che fa parte della stessa corrente teorica”. Grazie a Kurz, Gorz riconosce la funzione vitale che hanno le bolle finanziarie per la sopravvivenza del sistema (19) vede confermata l’idea per cui la crisi non è dovuta agli eccessi della finanza, ma “all’incapacità del capitalismo di riprodursi” (20) – Kurz rimprovera ad ATTAC di non riuscire a capirlo. Il capitalismo raggiunge così i propri limiti interni. Il nocciolo della questione risiede, come ha detto Gorz almeno a partire dal suo “La strada del paradiso “ (1983), nella terza rivoluzione industriale:

La révolution microélectronique permet de produire des quantités croissantes de marchandises avec un volume décroissant de travail, de sorte que tôt ou tard le système doit se heurter à ses limites internes. Ce capitalisme qui s’automatise à mort devra chercher à se survivre par une distribution de pouvoir d’achat qui ne correspond pas à la valeur d’un travail (21 ) .

“La rivoluzione microelettronica permette di produrre delle quantità crescenti di merci con un volume decrescente di lavoro, di modo che prima o poi il sistema dovrà trovarsi di fronte ai suoi limiti interni. Questo capitalismo che si automatizza a morte dovrà cercare di sopravvivere a sé stesso per mezzo di una distribuzione di potere di acquisto che non corrisponde al valore del lavoro.” (21 )

Les derniers textes de Gorz magnifient plus que jamais l’utopie d’une société écologique et communiste mettant à bas l’infernale logique capitaliste de destruction de la nature et de l’humain. On y trouve les couleurs du catastrophisme marxiste, de l’optimisme technologique et de l’emballement utopiste. Ces écrits sont partagés entre un constat sombre et sans concession de l’emprise tentaculaire du capitalisme qui se survit en même temps qu’il nage dans ses apories et atteint ses limites, et une attraction presque enivrante pour les brèches qu’offre néanmoins le mastodonte capitaliste, notamment à travers des avancées technologiques susceptibles d’être appropriées et subverties par ceux qui expérimentent concrètement des voies civilisées de sortie du capitalisme. Gorz compte beaucoup sur les potentialités subversives des logiciels libres et sur la diffusion dans des cercles coopératifs des imprimantes 3D.

Gli ultimi testi di Gorz magnificano più che mai l’utopia di una società ecologica e comunista che faccia saltare per aria l’infernale logica capitalista di distruzione della natura e dell’umanità. Si tinge dei colori del catastrofismo marxista, dell’ottimismo tecnologico e dell’esplosione utopistica. Questi scritti si dividono fra la presenza di un’oscurità costante e senza concessioni della tentacolare impresa del capitalismo che rimane a galla nel mentre che nuota nelle sue aporie e raggiunge i suoi limiti, ed un’attrazione quasi inebriante per le brecce che comunque si aprono nel mastodonte capitalista, soprattutto per mezzo dei progressi tecnologici suscettibili di venire appropriati e sovvertiti da coloro che sperimentano concretamente i metodi civilizzati di uscita dal capitalismo. Gorz conta molto sulle potenzialità sovversive del software libero e sulla diffusione in ambito cooperativo delle stampanti 3D.

Non pas que la technologie ait un pouvoir de démiurge : « Le règne de la liberté ne résultera jamais des processus matériels (22) ». D’ailleurs, si « la logique du capital nous a conduits au seuil de la libération – écrivait Gorz déjà en 1980 dans les Adieux – ce seuil ne sera franchi que par une rupture » qui « ne peut venir que des individus eux-mêmes ( 23) ». « Radicale (catégoriale, disent maintenant les kurziens) », cette rupture « ne peut être spontanée, ne peut être portée par de grands mouvements collectifs mais doit être à la fois “mentale” et pratique ([Félix] Guattari di[sait] ça très bien à sa façon), sans visée systémique, sans référence à un “ordre nouveau” » ; elle « ne peut être rapide, violente, sous peine d’accoucher d’un ordre totalitaire (24) ». Gorz renoue aussi explicitement avec les positions des Adieux « sur la crise/décadence/corruption/impuissance du politique et des partis » en manifestant son accord avec les kurziens pour qui « il ne faut rien attendre des États/gouvernements (25) » (pour les kurziens, le socialisme réellement existant a été un capitalisme d’État et les socialistes, bien nommés – « à chacun selon son travail » –, ne sont jamais que la gauche du capital).

Non che la tecnologia possegga un potere da demiurgo: “Il regno della libertà non sarà mai il risultato di processi materiali” (22) D’altra parte, se “la logica del capitale ci ha portato sulla soglia della liberazione” – scriveva Gorz già nel 1980 in “Addio al proletariato” – “questa soglia verrà attraversata solo in virtù di una rottura” che “non può provenire altro che dagli individui stesso”. (23) “Radicale (categoriale, dicono ora i kurziani)”, questa rottura “non può essere spontanea, né può essere portata da grandi movimenti collettivi ma dev’essere sia ‘mentale’ che pratica ( [ Felix] Guattari lo diceva bene, a modo suo), senza essere sistemica, senza che faccia riferimento ad un ‘ordine nuovo'”; essa “non può essere rapida, violenta, sotto pena di far nascere un ordine totalitario” (24 ) In questo modo, Gorz rinnova esplicitamente le posizioni di “Addio al proletariato” “sulla crisi/decadenza/corruzione/impotenza della politica e dei partiti” manifestando il suo accordo con i kurziani per i quali “non bisogna aspettarsi niente dagli Stati/governi” (25) (per i kurziani, il socialismo realmente esistente è stato un capitalismo di Stato ed i socialisti, ben denominati – “a ciascuno secondo il suo lavoro” -, non sono mai stati altro che la sinistra del capitale).

 

Appendice

Note

1. André Gorz, “ Wissen, Wert und Kapital. Zur Kritik der Wissensökonomie “, Zurich, Rotpunktverl., 2004, p. 79.
2. André Gorz, “ La valeur du capital immatériel est une fiction boursière ” (entretien avec Denis Clerc et Christophe Fourel), Alternatives économiques, 212, mars 2003, p. 68.
3 . André Gorz, “ Écologica “, Paris, Galilée, 2008, p. 148.
4. André Gorz, “ La valeur du capital immatériel est une fiction boursière , p. 69
5. André Gorz, “ Penser l’exode de la société du travail et de la marchandise “, Mouvements, 50, juin-août 2007, p. 98.
6. André Gorz, “ Gorz, bourreau du travail “ (entretien avec Robert Maggiori et Jean-Baptiste Marongiu), Libération, 25 septembre 1997.
7. A. Gorz, “ Écologica “, op. cit., p. 28 et 27.
8. Lettre d’André Gorz à Françoise Gollain du 5-6 septembre 2005 (archives de l’IMEC, fonds André Gorz).
9. Ajout manuscrit non daté à un entretien publié en 1984 (ibid. 10.12, repris dans André Gorz, “L’homme est un être qui a à se faire ce qu’il est “, in Christophe Fourel (ed.), “André Gorz. Un penseur pour le xxie siècle “, Paris, La Découverte, 2012, p. 267.
10. “ Über den Horizont unserer Handlungen. Aus den nachgelassenen Briefen des André Gorz “ ( lettres en allemand d’André Gorz à Franz Schandl et Andreas Exner), Streifzüge, 41, novembre 2007, p. 9-13.
11. André Gorz,  “ Seid realistisch – verlangt das Unmögliche “  , in Andreas Exner, Werner Rätz, Birgit Zenker (eds.), “ Grundeinkommen. Soziale Sicherheit ohne Arbeit “, Vienne, Deuticke Verl., 2007, p. 70-78.
12. Lettre d’A. Gorz à A. Exner du 5 juillet 2007, in « Über den Horizont unserer Handlungen », op. cit., p. 13.
13. Préface inédite en vue d’une deuxième édition en français de “ L’immatériel “ (Archives de l’IMEC, fonds André Gorz 9.5).
14. Lettre de Gérard Briche à André Gorz du 19 juin 2007 (archives de l’IMEC, fonds André Gorz).
15. Voir aussi Anselm Jappe, “ André Gorz et la critique de la valeur “, in Alain Caillé, Christophe Fourel (eds.), “ Sortir du capitalisme. Le scénario Gorz “ , Lormont, Le Bord de l’eau, 2013, p. 161-169.
16. A. Gorz, “ Écologica “, op. cit., p. 133.
17 . Lettre d’André Gorz à Françoise Gollain du 15, 25-27 décembre 2004 (archives de l’IMEC, fonds André Gorz). Gorz a trouvé la citation d’Immanuel Kant chez Oskar Negt.
18. Lettre d’André Gorz à Hugues Jallon du 19 janvier 2006 (ibid.).
19. A. Gorz, “ Écologica “, op. cit., p. 111-112, 145-146 note.
20. Ibid., p. 28.
21. A. Gorz, “ Penser l’exode de la société du travail et de la marchandise “, op. cit., p. 95-96.
22. André Gorz, “Adieux au prolétariat “, Paris, Galilée,2e éd., 1981, p. 112.
23. Ibid.
24. Lettre d’André Gorz à Françoise Gollain du 26 juillet 2007 (archives de l’IMEC, fonds André Gorz).
25 . Ibid.

 

Bibliografia
Willy Gianinazzi , “ Quand André Gorz découvrit la critique de la valeur “ , Streifzüge, 18 janvier 2016 .

 

Photo
André Gorz e Dorinne

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Auschwitz als Alibi ?

Auschtwitz

 

 

Il testo “Auschwitz als Alibi ? “ è una risposta ai critici tedeschi dello “Schwarzbuch Kapitalismus” (” Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz.

 

Auschwitz als Alibi?
von Robert Kurz

Auschwitz come alibi?
di Robert Kurz

Natürlich kann die zähe Weigerung, sich dem unausweichlichen wertkritischen Paradigmenwechsel der Kapitalismuskritik zu stellen, auch andere Formen annehmen als die einer klassenkämpferischen Nostalgie wie bei MG-Huisken. Der größere Teil der Restlinken hat es längst vorgezogen, sich von der expliziten Kritik der politischen Ökonomie leise zu verabschieden. Als Ersatzhandlung versuchen nicht wenige ideologische Heimwerker, die Ruine des unaufgehobenen Arbeiterbewegungsmarxismus mit allerlei inkompatiblen, vermeintlich “modernisierenden” Anbauten und Stützbalken zu verzieren: vom popkulturellen Räsonnement über die Kultursoziologie eines Bourdieu bis zum poststrukturalistischen “Diskurs”.

L’ostinato rifiuto, a fronte del cambio di paradigma, di prendere posizione nel senso di una “critica del valore” proviene, in primo luogo, dalla nostalgia della lotta di classe. Inoltre, è da molto tempo che la maggior parte del marxismo tradizionale ha preso congedo dalla critica esplicita dell’economia politica. Non sono pochi gli ideologhi che cercano, come sostituto all’azione, di guarnire l’ormai superato marxismo del movimento operaio con ogni genere di costruzioni con esso incompatibili, presupposte come modernizzanti: dal ragionamento pop-culturale della sociologia di un Pierre Bordieu, fino al “discorso” post-strutturalista.

Der an sich berechtigte Impuls, den in der traditionell “ökonomistischen” (genauer: soziologistischen) Linken unterbelichteten kulturellen Aspekt kapitalistischer Vergesellschaftung kritisch aufzugreifen, hat in diesen Erscheinungsformen nichts mit einer Überwindung des obsolet gewordenen Arbeiterbewegungsmarxismus zu tun. Denn die postmodernen “Kulturmarxisten”, die eigentlich schon keine mehr sind, befinden sich höchstens mit ihren extravaganten Sonnenbrillen auf der Höhe der Zeit; theoretisch können und wollen sie sich in gar keiner Weise mit dem als historische Aufgabe anstehenden Übergang vom klassensoziologisch verkürzten zum wertkritischen Rahmen radikaler Gesellschaftstheorie vermitteln. Ganz im Gegenteil erleben sie diese Aufgabe genau wie die sitzengebliebenen Klassenkämpfer als Bedrohung. Die kulturelle Thematik erscheint nicht im neuen Kontext, sondern als dessen Abwehr, und verwandelt sich damit in eine reine Alibi-Veranstaltung. Der völlig unaufgearbeitete alte Ökonomismus wird so lediglich durch einen ebenso bornierten Kulturalismus ersetzt.

L’impulso, in sé giustificato, ad impadronirsi criticamente dell’aspetto culturale della socializzazione capitalista abitualmente ignorato da una sinistra tradizionalmente “economista” (per meglio dire: “sociologista”), in manifestazioni del genere non ha niente a che vedere con un superamento del marxismo del movimento operaio. I postmoderni “marxisti culturali” che, in realtà, non sono più propriamente marxisti, si trovano solamente all’altezza dei tempi con i loro stravaganti occhiali da sole. In teoria, non possono e non vogliono coinvolgersi nella trasformazione storicamente in atto della teoria critica, ridotta a sociologismo della lotta di classe, per mezzo della critica del valore. Al contrario, similmente ai sostenitori della lotta di classe, vivono questo compito come una minaccia che li lascerebbe impotenti. La tematica culturale non si manifesta in un nuovo contesto, ma soltanto come la sua difesa e, in tal modo, diventa un puro alibi spettacolare. Il vecchio economicismo completamente mutilato viene sostituito da un culturalismo altrettanto ottuso.

Besonders krass tritt diese billige Auswechslung der theoretischen Reduktion beim Thema Auschwitz in Erscheinung. Der mehr oder weniger kulturalistisch orientierte Teil der Restlinken will ganz offensichtlich geradezu reflexartig jeden Versuch wegbeißen, die Faschismustheorie wertkritisch zu reformulieren. Hatte die Linke in der Vergangenheit das Menschheitsverbrechen des Nationalsozialismus vor allem auf krude sozialökonomische “Interessen des Kapitals” und/oder oberflächliche soziologische Transformationsprozesse des kapitalistischen Herrschaftsapparats in der Weltwirtschaftskrise zurückgeführt, während die Macht der biologistisch-antisemitischen Massenideologie ebenso unterbelichtet blieb wie die spezifisch deutsche Geschichte, so verschwindet nun genau umgekehrt der kapitalistische Bedingungszusammenhang des Nazi-Regimes in einem voraussetzungs- und zusammenhanglosen “rein deutschen” kulturell-ideologischen Sachverhalt.

E’ con particolare crudezza che entra in scena il commercio a buon mercato dei riduzionismi teorici sul tema di Auschwitz. Il settore del marxismo tradizionale più o meno orientato alla cultura intende sbarazzarsi di ogni tentativo di riformulazione della teoria del fascismo svolto alla luce della critica del valore. In passato, la sinistra ha limitato i crimini del nazionalsocialismo contro l’umanità al mero contesto socio-economico dello “interesse del capitale”. Inoltre, si è limitata ai processi sociologici superficiali della trasformazione dell’apparato di dominio capitalista durante la crisi economica mondiale, relegando in secondo piano il potere dell’ideologia biologico-antisemita in quanto specificamente tedesca. Ora, al contrario, è il contesto capitalista del regime nazista che sparisce in un decontestualizzato stato di cose cultural-ideologico “puramente tedesco”.

Kein Wunder, daß aus dieser Ecke Günther Jacob das “Schwarzbuch” besonders heftig attackieren muß, weil darin ein systematischer Zusammenhang zwischen kapitalistischer Entwicklungsgeschichte und spezifisch “deutscher Ideologie” hergestellt (also nicht das eine gegen das andere ausgespielt) wird. Als “marxistischen” Ausweis, beim einschlägig “geschulten” Publikum Einverständnis heischend, dekretiert Jacob, das “Schwarzbuch” sei “auf einer Revision der Marxschen Werttheorie aufgebaut” – ohne auch nur anzudeuten, was das heißen soll. Für das, was er selber noch zu sagen hat, braucht er allerdings überhaupt keine Werttheorie mehr, weder eine Marxsche noch eine revidierte. Mit der alten linksradikalen Kapitalismuskritik kokettiert er nur bei taktischem Bedarf; und der abgehalfterte 70er-Jahre-Marxismus wird als Spiel- und Vorzeigemarke allein zu dem Zweck hervorgeholt, den Begriff der politischen Ökonomie für die Entsorgung von deren Kritik zu bemühen.

Non sorprende che, da questo punto di vista, Günter Jacob attacchi in maniera così violenta lo Schwarzbuch. dal momento che in esso viene esposta una relazione sistemica fra la storia dello sviluppo capitalista ed una specifica “ideologia tedesca” (cioè, non viene semplicemente opposta l’una all’altra). In quanto portavoce del marxismo ortodosso, abituato ad un pubblico “addestrato”, Jacob decreta che lo Schwarzbuch è “costruito su una revisione della teoria marxista del valore”, senza però spiegare che cosa questo significhi. Ad ogni modo, per quanto ancora gli rimane da dire, non serve una teoria del valore, che sia marxista o revisionata. Per necessità tattica, si limita a flirtare con la vecchia critica radicale di sinistra del capitalismo e, pertanto, viene utilizzato il marxismo detronizzato degli anni 70 come fosse una fiche per puntare, come una rappresentazione volta unicamente a far sì che il concetto di economia politica elimini la sua critica.

Explizit figurieren bei Jacob die kritischen Begriffe der Wertvergesellschaftung nur noch als angeblich “durch den Holocaust unwahr gewordene Kategorien”. Fast hat es den makaberen Anschein, als fände die Ermordung von sechs Millionen Juden ausgerechnet darin ihren Sinn, daß gewissen deutschen Linken das Privileg beschert wird, die schäbig gewordene klassenkämpferische Altidentität locker kulturalistisch übertünchen zu können. Jacob ist kaltschnäuzig genug, Auschwitz nicht nur für die Beerdigung der radikalen Ökonomiekritik zu instrumentalisieren, sondern in diesem Sinne zu allem Überfluß auch noch Adorno als Kronzeugen aufrufen zu wollen, den er ansonsten in zentralen theoretischen Fragen als toten Hund behandelt. In Wahrheit hat die Kritische Theorie nie aufgehört, Auschwitz in vermittelter Beziehung zum warenproduzierenden System zu sehen, während Jacobs Position in genauer Umkehrung des bekannten Diktums von Horkheimer auf die Forderung hinausläuft: Wer von Auschwitz reden will, soll hinfort vom Kapitalismus schweigen.

Esplicitamente, in Jacob, i concetti critici della socializzazione del valore appaiono soltanto come presunte “categorie che sono diventate incerte a causa dell’olocausto”. C’è quasi l’apparenza macabra che l’assassinio di sei milioni di ebrei trovi il suo senso in quello che gli viene attribuito da una certa sinistra tedesca: il privilegio di poter dissimulare culturalmente, in tutta tranquillità, la vecchia identità della lotta di classe, ormai collassata. Jacob non solo strumentalizza Auschwitz al fine di seppellire la critica radicale dell’economia, ma vuole anche chiamare Adorno a testimone principale, nel mentre che per le questioni essenziali lo tratta come un cane morto. In realtà, la Teoria Critica non ha mai smesso di vedere Auschwitz nella sua relazione con il sistema produttore di merci, mentre la posizione di Jacob si basa sull’esigenza, di invertire completamente la frase di Horkheimer, dicendo: chi vuole parlare di Auschwitz deve immediatamente tacere sul capitalismo.

Um seine Flucht in den Kulturalismus als überlegene Position darstellen zu können, greift Jacob zu einem fast unglaublichen Mittel: er fälscht regelrecht die Argumentation des “Schwarzbuchs” zum Nationalsozialismus um und lügt dem Publikum vor, dort stünde das exakte Gegenteil von dem, was tatsächlich gesagt wird. So behauptet er, das “Schwarzbuch” habe im Kern die “historisierende Erklärung” von Götz Aly mit positivem Bezug auf Nolte (!) übernommen, worin Auschwitz als singuläre Tat bestritten und in die allgemeinen Modernisierungsverbrechen des 20. Jahrhunderts eingeordnet wird. Genau umgekehrt arbeitet das “Schwarzbuch” gerade anhand der Geschichte der Zweiten industriellen Revolution die entscheidende Differenz von Auschwitz zum sowjetischen Gulag wie zum Fordismus der USA heraus und rechnet dabei mit Nolte weitaus gründlicher ab als dessen linksdemokratische BRD-Hauskritiker. Jacob geht in seiner groben Umfälschung noch weiter und behauptet, im “Schwarzbuch” werde die Vernichtung der Juden “funktionalistisch” als “Mittel zu einem anderen Zweck” (Modernisierung) dargestellt, aber dabei falle es dem Autor dann schwer, die “gewohnten Nutzenkalküle hinter den Erscheinungen” auszumachen und “plötzlich” scheine “alles irrational”. Genau umgekehrt zeigt das “Schwarzbuch” (u.a. mit Bezug auf Moishe Postone), daß und warum Auschwitz mit keinerlei “Nutzenkalkül” erklärt werden kann, sondern in einer tiefen Irrationalität und in Ressentiments wurzelt, deren Elemente einerseits die Wertvergesellschaftung als solche von Anfang an gekennzeichnet haben, andererseits aber in Deutschland seit Herder und Fichte mit einem spezifischen Inhalt ausgebildet wurden: nämlich der kulturalistisch-rassistischen, blutsideologischen Legitimation der deutschen Nationsbildung. Dieser Zusammenhang, der sich wie ein roter Faden durch das “Schwarzbuch” zieht, wird von Jacob vollständig eskamotiert.

Per poter presentare questa fuga verso il culturalismo come una posizione ponderata, Jacob si avvale di un mezzo quasi incredibile: falsifica letteralmente le argomentazioni dello Schwarzbuch riguardo al nazionalsocialismo e mente al pubblico affermando che c’è scritto esattamente l’opposto di quel che dice. In tal modo, asserisce che lo Schwarzbuch riprende fondamentalmente la spiegazione storicizzante di Götz Aly, con un riferimento positivo ad Ernst Nolte (!), per cui viene messo in dubbio Auschwitz in quanto atto singolare e lo si subordina ai crimini generali della modernizzazione del 20° secolo. Esattamente al contrario, lo Schwarzbuch esplora, a partire dalla storia della seconda rivoluzione industriale, la differenza decisiva fra Auschwitz ed il gulag sovietico, così come quella con il fordismo americano e, in questo modo, regola i conti con Nolte assai più profondamente di quanto facciano i suoi critici fatti in casa, democratici di sinistra della Repubblica Federale Tedesca. Jacob va ancora più lontano nella sua falsificazione, affermando che nello Schwazbuch il massacro degli ebrei viene presentato in maniera “funzionalista”, come un mezzo per arrivare ad un altro fine (la modernizzazione), ma che, tuttavia, risulta difficile all’autore estrarre “i calcoli utilitaristici che si trovano dietro le apparenze” e “all’improvviso” appare “tutto irrazionale”. Ma proprio al contrario, lo Schwarzbuch (fra l’altro, riferendosi a Moishe Postone) mostra il perché Auschwitz non può essere spiegato in funzione di qualsivoglia “calcolo di utilità”, essendo radicato profondamente nell’irrazionalità e nel risentimento, i cui elementi, da un lato, hanno caratterizzato fin dal principio la socializzazione del valore in quanto tale e, dall’altro lato, si sono costituiti in Germania, a partire da Herder e Fichte, sulla base di un contenuto specifico: la legittimazione culturalista della “ideologia del sangue” già presente nella formazione della nazione tedesca. Questo contesto, che percorre tutto lo Schwarzbuch, viene interamente nascosto da Jacob.

Die Fälschung ist so offensichtlich, daß sie nicht als bewußtes denunziatorisches Kalkül unterstellt werden muß. Viel eher kann bei Jacob eine Art Wahrnehmungscrash vermutet werden, der auf sein eigenes Vorverständnis zurückzuführen ist. Als weiteres Opfer einstiger MG-“Schulung” hat er genau jenen positivistisch reduzierten Begriff von Wertvergesellschaftung, in dem diese wie bei Huisken in “rationalen Nutzenkalkülen” von “Klasseninteressen” aufgeht. Weil Auschwitz damit aber nicht erklärt werden kann, wird es für Jacob zur Widerlegung der Kapitalismuskritik. Jeder, der überhaupt einen Zusammenhang zwischen fetischistischer Wertform und Auschwitz herstellt, muß das Menschheitsverbrechen aus dieser Sicht auf “rationale Nutzenkalküle” reduzieren, und genau das liest Jacob dann in das “Schwarzbuch” hinein. Er merkt gar nicht, daß es sich um sein ureigenes Problem handelt, das er anderen anhängen will.

La falsificazione è talmente evidente che non può non essere presa in considerazione l’idea di un calcolo accusatorio consapevole. Si può supporre, tuttavia, che il problema di Jacob risieda anche nella sua limitata comprensione della questione del valore. Come vittima degli “insegnamenti” del marxismo tradizionale, egli condivide il concetto positivamente ridotto di socializzazione del valore, in quanto è assorbito da “calcoli razionali utilità” degli “interessi di classe”. E dal momento che Auschwitz non può essere spiegato in questo modo, abbandona la critica del capitalismo. In tale prospettiva, quello che spiega la relazione fra la forma feticistica del valore ed Auschwitz dovrebbe ridurre il crimine contro l’umanità ad un “calcolo razionale di utilità”. E’ proprio questo che Jacob vede nello Schwarzbuch. Non si rende conto che ciò che attribuisce agli altri costituisce il suo proprio problema fondamentale.

Deshalb erscheint ihm dann die Analyse des Antisemitismus mit Bezug auf die abstrakte Arbeit als “Einengung”, während es sich in Wirklichkeit um eine Erweiterung handelt. Denn dem Arbeiterbewegungsmarxismus mußte aufgrund seiner Positivierung und Ontologisierung der “Arbeit” nicht nur die antisemitische Projektion des negativ-abstrakten Charakters dieser “Arbeit” auf ein angebliches “jüdisches Wesen” entgehen, wobei seine Faschismustheorie auf “Klasseninteressen” verkürzt blieb; er enthielt auf diese Weise auch – und nicht erst seit den Ausfällen von Engels gegen die “Kuponschneider” – selber bestimmte Elemente der “politischen Ökonomie des Antisemitismus” (ohne damit einfach identisch zu sein). Erst eine radikale Wert- und damit Arbeitskritik kann diesen Zusammenhang aufdecken und gleichzeitig analog zu den allgemeinen Subjektformen von Konkurrenz und abstrakter Arbeit den klassenübergreifenden Charakter der antisemitischen Ideologiebildung (und der Ideologiebildung überhaupt) erklären. Die Marxsche Aussage, daß das Sein das Bewußtsein bestimmt, wird so von der klassensoziologischen Verkürzung befreit und auf die grundsätzliche kategoriale Formebene der Gesellschaft gehoben. Jacob dagegen läßt den analytischen Bezug zu dem auf einen “Wirtschafts”- und “Interessen”-Gegenstand reduzierten Wertbegriff bloß fallen, um das, was an Auschwitz erklärt werden kann, in eine kulturalistische Mystifikation zu verwandeln.

Per questo, successivamente, l’analisi dell’antisemitismo nella sua relazione con il lavoro astratto gli appare come una limitazione, quando in realtà si tratta di un ampliamento. Dal momento che al marxismo del movimento operaio sfuggiva tale relazione, a causa della positivizzazione e dell’ontologizzazione del “lavoro”, gli sfuggiva anche la proiezione antisemita, su una presunta “essenza ebraica”, del carattere astratto negativo di tale “lavoro”. Così, la teoria marxista tradizionale del fascismo si riduceva allo “interesse di classe”, nonostante includesse anche – e non solo a partire dagli insulti di Engels contro “il ritaglio dei buoni sconto” – alcuni elementi della “economia politica dell’antisemitismo” (senza che, tuttavia, fosse semplicemente identica ad essa). Solo una critica radicale del valore e, quindi, una critica del lavoro, può mettere a nudo una simile relazione e, allo stesso tempo, analogamente, le forme generali del soggetto della concorrenza e del lavoro astratto, e spiegare il carattere, che si pone al di sopra delle classi, della formazione dell’ideologia antisemita (e della formazione dell’ideologia in generale). L’affermazione marxista secondo cui l’essere determina la coscienza si libera, in questo modo, dalla riduzione ideologica di classe e si innalza all’ambito formale delle categorie fondamentali della società. Al contrario, Jacob elimina dalla sua analisi il riferimento al concetto di valore, ridotto ad un mero oggetto della “economia” e dello “interesse”, per convertire in una mistificazione culturalista tutto ciò che di Auschwitz può essere spiegato.

Im Sinne einer radikalen Kritik, die den Wert nicht wirtschaftstheoretisch verdinglicht, sondern als allgemeine Subjektform begreift, kann das Verhältnis von Kapitalismus, antisemitischer Ideologie und Holocaust überhaupt erst historisch bestimmt werden. Die moderne antisemitische Ideologie als solche ist dabei wie der Rassismus in der bürgerlichen Gesellschaft seit der Aufklärung nachzuweisen und insoweit ein universelles kapitalistisches Phänomen. Die Nazis integrierten nicht nur die sozialdarwinistische Ideologie des angelsächsischen Liberalismus, sondern eine ganze Reihe von repressiven Elementen der Modernisierung (darunter z.B. das Konzentrationslager). Insofern ist Auschwitz ein Bestandteil der gesamtkapitalistischen Geschichte. Allein in Deutschland aber wurde der Antisemitismus im Kontext der blutsideologisch legitimierten Nationsbildung ein eliminatorischer. Insofern ist Auschwitz ein wesentlicher Bestandteil der spezifisch deutschen Geschichte. Zur realen staatsprogrammatischen Praxis des industriellen Massenmords wiederum wurde dieser eliminatorische deutsche Antisemitismus eben nicht im 19. Jahrhundert, sondern erst im Kontext von Weltwirtschaftskrise und Nazi-Fordismus. Insofern ist Auschwitz auch ein Bestandteil der Zweiten industriellen Revolution. Es ist ganz falsch, diese Bezüge gegeneinander auszuspielen, wie etwa in der Suggestivfrage zum einschlägigen Workshop für das Konkret-Sommergelage, ob der Holocaust “letztlich eine Folge der allgemeinen kapitalistischen Katastrophe” gewesen sei “oder” eine “Konsequenz des spezifisch deutschen Antisemitismus”. Das eine ist gar nicht ohne das andere zu denken.

Grazie ad una critica radicale che non cosifica il valore in maniera teorico-economica, ma lo intende come forma generale del soggetto, si può definire storicamente la relazione fra capitalismo, ideologia antisemita ed olocausto. L’ideologia antisemita moderna in quanto tale, allo stesso modo del razzismo, è presente nella società borghese fin dall’Illuminismo, ed in tal senso è un fenomeno capitalista universale. I nazisti non solo hanno tratto dal liberalismo anglosassone la loro ideologia social-darwinista, ma anche tutta una serie di altri elementi repressivi della modernità (fra di essi, ad esempio, i campi di concentramento). In questo registro, Auschwitz è parte costitutiva della totalità storica del capitalismo. Tuttavia, soltanto in Germania l’antisemitismo, in un contesto di formazione della nazione legittimata dall’ideologia del sangue, si è convertito in un processo eliminatorio. In tal senso, Auschwitz è parte costitutiva essenziale della specifica storia tedesca. D’altra parte, questo antisemitismo tedesco eliminatorio non si è convertito, nel corso del 19° secolo, in programma statale di assassinio su scala industriale, ma la cosa si è venuta a verificare solo nel contesto della crisi economica mondiale del nazi-fordismo. Auschwitz è anche parte costitutiva della seconda rivoluzione industriale. E’ del tutto erroneo rendere escludenti questi due riferimenti, come avviene nella domanda insinuante di “Konkret” circa il fatto se l’olocausto sia stato “in ultima analisi una conseguenza della generale catastrofe capitalista” oppure “una conseguenza dello specifico antisemitismo tedesco”. L’uno non può essere pensato senza l’altro.

In diesem Zusammenhang hat eine Analyse ihren Stellenwert, die wie Gerhard Scheits Buch über die Dramaturgie des Antisemitismus im wertkritischen Kontext den spezifisch eliminatorischen Charakter dieser Ideologie durch die deutsche Kulturgeschichte hindurch verfolgt. Aber genau dazu ist der Kulturalismus eines Jacob grundsätzlich nicht in der Lage, denn in seiner poststrukturalistisch verflachten Weltsicht gibt es gar keine Geschichte mehr, jedenfalls nicht als Kontinuität eines sich entfaltenden Prozesses, sondern nur noch die Oberfläche einer bloß äußerlich aufeinander geschichteten “Jeweiligkeit” von zeitlichen Erscheinungen, die immer schon unmittelbar ihr eigenes Wesen sein sollen. In diesem Sinne löst Jacob Auschwitz nicht nur vom Kapitalismus, sondern sogar von der Kontinuität der deutschen Geschichte ab. Der Holocaust wird so gerade nicht polemisch gegen die apologetischen Historisierer als unaufgehobene Geschichte begriffen, die nur durch eine kategorische Kritik der Wertvergesellschaftung zu überwinden wäre, sondern zu einem ahistorischen Spielzeug des “Diskurses” gemacht.

In questo contesto, è importante svolgere un’analisi del problema, come avviene nel libro di Gerhard Scheit sulla drammaturgia dell’antisemitismo, nel contesto della critica del valore, la quale persegue il carattere eliminatorio specifico di tale ideologia, nel corso di tutta la storia culturale tedesca. Ma un culturalismo come quello di Jacob non è capace di realizzare una tale impresa, giacché nella sua visione “post-strutturalista” del mondo non si ha storia, almeno nel senso della continuità di un processo che si sprigiona, se non come la superficie delle “eventualità” di manifestazioni temporanee che si dispongono nella storia le une sulle altre in una maniera puramente esteriore, che deve costituire sempre ed immediatamente la loro vera essenza. In questo senso, Jacob non solo separa Auschwitz dal capitalismo, ma la separa anche da tutta la continuità della storia tedesca. Così, l’olocausto non viene compreso in maniera polemica, contro gli storici apologeti, come storia non superata, e che si potrebbe superare soltanto mediante una critica categorica della socializzazione attraverso il valore, ma diventa un giocattolo astorico del “discorso”.

Auch das strukturelle Verhältnis von Wertform und Ideologiebildung kann erst der wertkritische Zugang erhellen. Weil für Jacob (wiederum im Einklang mit Huisken) die Beziehung von “automatischem Subjekt” und handelnden Menschen, von Subjektform und Willensinhalten ein Buch mit sieben Siegeln bleibt, muß er das “Schwarzbuch” so lesen, als würden darin nicht die Individuen, sondern die abstrakten Kategorien selber unmittelbar “handeln” und damit die realen Personen als willenlose Objekte “des Werts” entschuldigen. Während es aber hinsichtlich der sozialen Interessen gerade die subjektiven Willensinhalte selber sind, die in der objektivierten Subjektform der Konkurrenz weitgehend bewußtlos den Verwertungsprozeß exekutieren, verlangt die Ideologiebildung den Subjekten in derselben Form eine viel weitergehende Bewußtseinsleistung ab. Denn dabei handelt es sich ja nicht um den alltäglichen Vollzug, sondern um eine bewußt verarbeitende Reaktion auf die praktisch erfahrene Negativität und die Widersprüche der Wertvergesellschaftung.

Anche la relazione strutturale fra la forma del valore e la formazione dell’ideologia può essere chiarita per mezzo della critica del valore. Dal momento che per Jacob la relazione fra “soggetto automatico” e le persone che lo attuano, fra la forma del soggetto ed il contenuto della volontà, continua ad essere un libro chiuso da sette sigilli, egli legge lo Schwarzbuch come se non fossero gli individui, ma bensì le stesse categorie astratte, ad “attuare” immediatamente, e, in questo modo, giustifica le persone in quanto oggetti senza volontà “del valore”. Mentre alla luce degli interessi sociali sono proprio i contenuti soggettivi di volontà ad eseguire inconsapevolmente una gran parte del processo di valorizzazione nella forma del soggetto di concorrenza; la formazione dell’ideologia richiede ai soggetti una parte di lavoro della coscienza ancora maggiore. Non si tratta solo di esecuzione quotidiana, ma di una relazione elaborata consciamente fra la negatività sperimentata praticamente e le contraddizioni della socializzazione attraverso il valore.

Die ideologischen Willensinhalte sind deshalb im Unterschied zu den Institutionen von Geld, Markt und Staat auch keineswegs formal aus dem Wert “abzuleiten”. Wer die Irrationalität der Wertform projektiv antisemitisch und damit seinerseits irrational interpretiert, “will” das auch bewußt zwecks Entlastung von bedrohlichen Widersprüchen und ist insofern nicht argumentativ durch “Aufklärung” zu erreichen, sondern nur zu bekämpfen. Das ändert aber nichts daran, daß diese “frei gewählten” Inhalte erstens überhaupt nur in bezug auf das zu erklären sind, worauf sie eine keineswegs automatische oder zwangsläufige Reaktionsbildung des Bewußtseins darstellen, und daß diese Bewußtseinsinhalte zweitens immer eine bestimmte zusammenhängende (eben auch spezifisch deutsche) Geschichte haben. Jacob eliminiert beides; er löst die antisemitische Ideologiebildung wie ihre mörderische deutsche Variante von ihrem gesellschaftlichen Gegenstand ab und macht sie zu einem Akt der voraussetzungslosen Beliebigkeit. Damit landet er bei der reinen bürgerlichen Individualmoral, die Gesellschaftskritik durch ethische Imperative ersetzt – ein antireflexiv reduziertes Denken, das Konjunktur hat, weil es bestens zur mikroökonomischen “Wende” des Neoliberalismus paßt. Beim Blick durch die Thatcher-Brille kann dann nur noch das atomisierte Einzelsubjekt erscheinen – das “selbstverantwortliche Individuum”, und sonst gar nichts.

I contenuti ideologici della volontà, perciò, non possono essere semplicemente “dedotti” formalmente dal valore, al contrario di istituzioni quali il denaro, il mercato e lo Stato. Chi interpreta l’irrazionalità della forma del valore in maniera proiettivamente antisemita, lo “vuole” anche con il fine di essere liberato dalle contraddizioni minacciose. Dal momento che queste contraddizioni non vengono aggredite argomentativamente dalla “chiarificazione”, rimane solo da combattere. Tali contenuti ideologici della volontà, “liberamente scelti”, non si spiegano come una formazione reattiva automatica o necessaria della coscienza, in quanto tali contenuti hanno una determinata storia (anche specificamente tedesca) che li contestualizza. Jacob elimina le due cose: risolve la formazione dell’ideologia antisemita come una variante assassina tedesca del suo oggetto sociale e la converte in un atto di arbitrarietà incondizionata. In questo modo, cade in una morale individuale puramente borghese, sostituendo gli imperativi etici alla critica sociale; un pensiero ridotto e non riflessivo che ha udienza solo perché è perfettamente coerente con la “svolta” neoliberista. Guardando attraverso gli occhi della Tatcher, si manifesta soltanto il soggetto individuale atomizzato – “l’individuo responsabile di per sé”, e niente di più.

 

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Robert Kurz , “Auschwitz als Alibi? Die letzten Gefechte der Restlinken (2. Teil ) ” , aus: Konkret 6/2000 .

 

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Photo : Il cancello d’ingresso, con la scritta “Arbeit macht frei” , del Campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz, Oświęcim ( in tedesco : Auschwitz ), Polonia.

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De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité

stato di emergenza

 

 

De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité

Pour le philosophe italien Giorgio Agamben, l’état d’urgence n’est pas un bouclier qui protège la démocratie. Il a, au contraire, selon lui, toujours accompagné les dictatures.

Per il filosofo italiano Giorgio Agamben, lo stato di emergenza non è uno scudo a difesa della democrazia. Al contrario, ha sempre annunciato le dittature .

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De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité
Dallo stato di diritto allo stato di sicurezza

On ne comprend pas l’enjeu véritable de la prolongation de l’état d’urgence [ jusqu’à la fin février ] en France, si on ne le situe pas dans le contexte d’une transformation radicale du modèle étatique qui nous est familier. Il faut avant tout démentir le propos des femmes et hommes politiques irresponsables, selon lesquels l’état d’urgence serait un bouclier pour la démocratie.

Non è possibile capire l’obiettivo reale della proroga dello stato di emergenza in Francia [prorogato fino alla fine di febbraio ] se non la si colloca nel contesto di una radicale trasformazione del modello statale che ci è più familiare.

Bisogna prima di tutto smentire quel che dicono donne e uomini politici irresponsabili, secondo i quali lo stato di emergenza sarebbe uno strumento a difesa della democrazia.

Les historiens savent parfaitement que c’est le contraire qui est vrai. L’état d’urgence est justement le dispositif par lequel les pouvoirs totalitaires se sont installés en Europe. Ainsi, dans les années qui ont précédé la prise du pouvoir par Hitler, les gouvernements sociaux-démocrates de Weimar avaient eu si souvent recours à l’état d’urgence (état d’exception, comme on le nomme en allemand), qu’on a pu dire que l’Allemagne avait déjà cessé, avant 1933, d’être une démocratie parlementaire.

Gli storici sanno bene che è vero il contrario. Lo stato di emergenza è infatti il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si affermarono in Europa. Negli anni che precedettero la salita al potere di Hitler, ad esempio, i governi socialdemocratici di Weimar avevano fatto un tale ricorso allo stato di emergenza (o stato di eccezione, come dicono i tedeschi) che è lecito dire che la Germania aveva smesso di essere una democrazia parlamentare già prima del 1933.

Or le premier acte d’Hitler, après sa nomination, a été de proclamer un état d’urgence, qui n’a jamais été révoqué. Lorsqu’on s’étonne des crimes qui ont pu être commis impunément en Allemagne par les nazis, on oublie que ces actes étaient parfaitement légaux, car le pays était soumis à l’état d’exception et que les libertés individuelles étaient suspendues.

Il primo atto politico di Hitler, dopo la sua nomina, fu proclamare lo stato di emergenza, che da allora in poi non fu mai più revocato. Quando ci si stupisce del fatto che in Germania i nazisti abbiano commesso impunemente così tanti crimini, si dimentica che quelle azioni erano perfettamente legali, poiché il paese era sottoposto allo stato di emergenza e poiché le libertà individuali erano sospese.

On ne voit pas pourquoi un pareil scénario ne pourrait pas se répéter en France  : on imagine sans difficulté un gouvernement d’extrême droite se servir à ses fins d’un état d’urgence auquel les gouvernements socialistes ont désormais habitué les citoyens. Dans un pays qui vit dans un état d’urgence prolongé, et dans lequel les opérations de police se substituent progressivement au pouvoir judiciaire, il faut s’attendre à une dégradation rapide et irréversible des institutions publiques.

Non c’è motivo di escludere che uno scenario analogo possa ripetersi in Francia: non è difficile immaginare un governo di estrema destra mentre si serve di uno stato di emergenza al quale i cittadini sono stati assuefatti dai governi socialisti. In un paese che vive in uno stato di emergenza continuo e nel quale le operazioni di polizia sostituiscono progressivamente il potere giudiziario, è lecito attendersi una dissoluzione rapida e irreversibile delle istituzioni pubbliche.

 

Entretenir la peur
Sostenere la paura

Cela est d’autant plus vrai que l’état d’urgence s’inscrit, aujourd’hui, dans le processus qui est en train de faire évoluer les démocraties occidentales vers quelque chose qu’il faut, d’ores et déjà, appeler Etat de sécurité (« Security State », comme disent les politologues américains). Le mot « sécurité » est tellement entré dans le discours politique que l’on peut dire, sans crainte de se tromper, que les « raisons de sécurité » ont pris la place de ce qu’on appelait, autrefois, la « raison d’Etat ». Une analyse de cette nouvelle forme de gouvernement fait, cependant, défaut. Comme l’Etat de sécurité ne relève ni de l’Etat de droit ni de ce que Michel Foucault appelait les « sociétés de discipline », il convient de poser ici quelques jalons en vue d’une possible définition.

Questo è ancor più vero in considerazione del fatto che lo stato di emergenza si inserisce, oggi, all’interno del processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare «Stato di sicurezza» (o Security State, come dicono i politologi americani). La parola «sicurezza» è entrata a tal punto nel lessico politico che possiamo dire, senza paura di sbagliare, che la «ragion di sicurezza» ha preso il posto di quella che un tempo si chiamava la «ragion di Stato». E tuttavia un’analisi di questa nuova forma di governo è attualmente difficile da fare: lo Stato di sicurezza non si riferisce né allo Stato di diritto né a quello che Michel Foucault chiamava «disciplinamento sociale». È quindi opportuno mettere qui qualche paletto in vista di una possibile definizione.

Dans le modèle du Britannique Thomas Hobbes, qui a si profondément influencé notre philosophie politique, le contrat qui transfère les pouvoirs au souverain présuppose la peur réciproque et la guerre de tous contre tous : l’Etat est ce qui vient justement mettre fin à la peur. Dans l’Etat de sécurité, ce schéma se renverse : l’Etat se fonde durablement sur la peur et doit, à tout prix, l’entretenir, car il tire d’elle sa fonction essentielle et sa légitimité.

Nel modello del filosofo inglese Thomas Hobbes, che ha influenzato profondamente la nostra filosofia politica, il contratto con cui i poteri erano trasferiti al Sovrano presupponeva la paura reciproca e la guerra di tutti contro tutti: lo Stato era per l’appunto ciò che doveva mettere fine alla paura. Nello Stato di sicurezza questo modello è ribaltato: lo Stato si fonda durevolmente sulla paura e deve sostenerla ad ogni costo, perché da essa trae la sua funzione essenziale e la sua legittimazione.

Foucault avait déjà montré que, lorsque le mot « sécurité » apparaît pour la première fois en France dans le discours politique avec les gouvernements physiocrates avant la Révolution, il ne s’agissait pas de prévenir les catastrophes et les famines, mais de les laisser advenir pour pouvoir ensuite les gouverner et les orienter dans une direction qu’on estimait profitable.

Già Foucault aveva dimostrato che, quando la parola «sicurezza» fece la sua comparsa nel lessico politico francese con i governi fisiocratici precedenti alla Rivoluzione, non si cercava di prevenire le catastrofi o le carestie ma di lasciare che accadessero per poi guidarle e orientarle nella direzione che si riteneva più conveniente.

 

Aucun sens juridique
Non c’è alcun senso giuridico

 

De même, la sécurité dont il est question aujourd’hui ne vise pas à prévenir les actes de terrorisme (ce qui est d’ailleurs extrêmement difficile, sinon impossible, puisque les mesures de sécurité ne sont efficaces qu’après coup, et que le terrorisme est, par définition, une série des premiers coups), mais à établir une nouvelle relation avec les hommes, qui est celle d’un contrôle généralisé et sans limites – d’où l’insistance particulière sur les dispositifs qui permettent le contrôle total des données informatiques et communicationnelles des citoyens, y compris le prélèvement intégral du contenu des ordinateurs.

Allo stesso modo, la sicurezza di cui si parla oggi non mira affatto a prevenire gli atti di terrorismo (cosa peraltro molto difficile, se non impossibile, dato che le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco avvenuto e dato che il terrorismo è per definizione un attacco senza preavviso), ma mira a stabilire un nuovo tipo di rapporti fra le persone, basato su un controllo generalizzato e illimitato: dal che l’attenzione particolare sui dispositivi che permettono un controllo totale dei dati informatici e delle comunicazioni dei cittadini, compresa la possibilità di accedere integralmente al contenuto dei computer personali.

Le risque, le premier que nous relevons, est la dérive vers la création d’une relation systémique entre terrorisme et Etat de sécurité : si l’Etat a besoin de la peur pour se légitimer, il faut alors, à la limite, produire la terreur ou, au moins, ne pas empêcher qu’elle se produise. On voit ainsi les pays poursuivre une politique étrangère qui alimente le terrorisme qu’on doit combattre à l’intérieur et entretenir des relations cordiales et même vendre des armes à des Etats dont on sait qu’ils financent les organisations terroristes.

Il primo rischio è una deriva verso la creazione di una relazione sistemica fra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, allora è necessario provocare il terrore o, nella migliore delle ipotesi, fare in modo che non sia ostacolato. Si vedono così paesi che perseguono una politica estera che alimenta quel terrorismo che poi pretendono di combattere all’interno, che intrattengono relazioni cordiali o addirittura vendono armi a Stati che sono noti finanziatori delle organizzazioni terroristiche.

Un deuxième point, qu’il est important de saisir, est le changement du statut politique des citoyens et du peuple, qui était censé être le titulaire de la souveraineté. Dans l’Etat de sécurité, on voit se produire une tendance irrépressible vers ce qu’il faut bien appeler une dépolitisation progressive des citoyens, dont la participation à la vie politique se réduit aux sondages électoraux. Cette tendance est d’autant plus inquiétante qu’elle avait été théorisée par les juristes nazis, qui définissent le peuple comme un élément essentiellement impolitique, dont l’Etat doit assurer la protection et la croissance.

Un secondo aspetto che è importante tenere a mente è il cambiamento nello statuto politico dei cittadini e del popolo, che si reputava depositario della sovranità. Nello Stato di sicurezza si osserva una tendenza irrefrenabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali. Tale tendenza è ancor più inquietante se si considera che era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento sostanzialmente impolitico al quale lo Stato doveva garantire protezione e crescita.

Or, selon ces juristes, il y a une seule façon de rendre politique cet élément impolitique : par l’égalité de souche et de race, qui va le distinguer de l’étranger et de l’ennemi. Il ne s’agit pas ici de confondre l’Etat nazi et l’Etat de sécurité contemporain : ce qu’il faut comprendre, c’est que, si on dépolitise les citoyens, ils ne peuvent sortir de leur passivité que si on les mobilise par la peur contre un ennemi étranger qui ne leur soit pas seulement extérieur (c’étaient les juifs en Allemagne, ce sont les musulmans en France aujourd’hui).

Ora, secondo questi teorici c’era un unico modo per politicizzare questo elemento impolitico: attraverso la comunanza della nascita e della razza, che avrebbe distinto il popolo dallo straniero e dal nemico. Non si tratta qui di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza contemporaneo. Quello che bisogna capire però è che quando si depoliticizzano i cittadini poi l’unico modo per farli uscire da questa passività è mobilitarli con la paura di un nemico straniero ma non del tutto estraneo: gli ebrei nella Germania nazista, i mussulmani nella Francia di oggi.

 

Incertitude et terreur
Incertezza e terrore

 

C’est dans ce cadre qu’il faut considérer le sinistre projet de déchéance de la nationalité pour les citoyens binationaux, qui rappelle la loi fasciste de 1926 sur la dénationalisation des « citoyens indignes de la citoyenneté italienne » et les lois nazies sur la dénationalisation des juifs.

È in questo contesto che bisogna pensare all’inquietante progetto di cancellazione della cittadinanza per i cittadini con doppia nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla denazionalizzazione dei «cittadini indegni della cittadinanza italiana» e le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.

Un troisième point, dont il ne faut pas sous-évaluer l’importance, est la transformation radicale des critères qui établissent la vérité et la certitude dans la sphère publique. Ce qui frappe avant tout un observateur attentif dans les comptes rendus des crimes terroristes, c’est le renoncement intégral à l’établissement de la certitude judiciaire.

Un terzo aspetto, del quale non bisogna sottovalutare l’importanza, è la radicale trasformazione dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella sfera pubblica.

Alors qu’il est entendu dans un Etat de droit qu’un crime ne peut être certifié que par une enquête judiciaire, sous le paradigme sécuritaire, on doit se contenter de ce qu’en disent la police et les médias qui en dépendent – c’est-à-dire deux instances qui ont toujours été considérées comme peu fiables. D’où le vague incroyable et les contradictions patentes dans les reconstructions hâtives des événements, qui éludent sciemment toute possibilité de vérification et de falsification et qui ressemblent davantage à des commérages qu’à des enquêtes. Cela signifie que l’Etat de sécurité a intérêt à ce que les citoyens – dont il doit assurer la protection – restent dans l’incertitude sur ce qui les menace, car l’incertitude et la terreur vont de pair.

Ciò che più colpisce l’osservatore scrupoloso nella lettura dei comunicati ufficiali sugli atti di terrorismo, è la totale rinuncia alla ricerca di una verità giudiziaria. Mentre nello Stato di diritto è dato per fondamentale che un crimine debba essere definito tale attraverso un’indagine giudiziaria, nel paradigma securitario bisogna accontentarsi di quello che dice la polizia o di quello che dicono i media basandosi sulla prima: due fonti che sono sempre state considerate troppo deboli. Da qui l’ondata di incredibili e palesi contraddizioni nelle ricostruzioni ufficiali dei fatti, che eludono sapientemente ogni possibilità di verifica o falsificazione e che assomigliano molto di più a chiacchiere da bar che a vere inchieste. Questo vuol dire che lo Stato di sicurezza ha tutto l’interesse che i cittadini – dei quali deve garantire la protezione – restino nell’incertezza riguardo a ciò che li minaccia, perché incertezza e terrore vanno sempre a braccetto.

C’est la même incertitude que l’on retrouve dans le texte de la loi du 20 novembre sur l’état d’urgence, qui se réfère à « toute personne à l’égard de laquelle il existe de sérieuses raisons de penser que son comportement constitue une menace pour l’ordre public et la sécurité ».  Il est tout à fait évident que la formule « sérieuses raisons de penser » n’a aucun sens juridique et, en tant qu’elle renvoie à l’arbitraire de celui qui « pense », peut s’appliquer à tout moment à n’importe qui. Or, dans l’Etat de sécurité, ces formules indéterminées, qui ont toujours été considérées par les juristes comme contraires au principe de la certitude du droit, deviennent la norme.

Questa incertezza la si ritrova nel testo della legge del 20 novembre sullo stato di emergenza, che fa riferimento a « ogni persona nei confronti della quale esistono seri motivi per pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza». È del tutto evidente che questa formula (« seri motivi per pensare ») non ha alcun senso giuridico, poiché poggiando sull’arbitrarietà di chi «pensa», può di fatto essere applicata in qualunque momento a qualunque persona. Ora, nello Stato di sicurezza queste formule indeterminate, che i giuristi hanno sempre considerato contrarie al principio della certezza del diritto, diventano invece la norma.

 

Dépolitisation des citoyens
Depoliticizzazione dei cittadini

La même imprécision et les mêmes équivoques reviennent dans les déclarations des femmes et hommes politiques, selon lesquelles la France serait en guerre contre le terrorisme. Une guerre contre le terrorisme est une contradiction dans les termes, car l’état de guerre se définit précisément par la possibilité d’identifier de façon certaine l’ennemi qu’on doit combattre. Dans la perspective sécuritaire, l’ennemi doit – au contraire – rester dans le vague, pour que n’importe qui – à l’intérieur, mais aussi à l’extérieur – puisse être identifié en tant que tel.

La stessa imprecisione e gli stessi equivoci ritornano nelle dichiarazioni degli uomini politici che pensano che la Francia sia in guerra contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una contraddizione di termini, perché uno stato di guerra può essere definito tale solo se esiste la possibilità di identificare con certezza il nemico che si intende combattere. Nella prospettiva securitaria, al contrario, l’identità del nemico deve restare nell’incertezza affinché chiunque – all’interno come all’esterno – possa essere identificato come tale.

Maintien d’un état de peur généralisé, dépolitisation des citoyens, renoncement à toute certitude du droit : voilà trois caractères de l’Etat de sécurité, qui ont de quoi troubler les esprits. Car cela signifie, d’une part, que l’Etat de sécurité dans lequel nous sommes en train de glisser fait le contraire de ce qu’il promet, puisque – si sécurité veut dire absence de souci (sine cura ) – il entretient, en revanche, la peur et la terreur. L’Etat de sécurité est, d’autre part, un Etat policier, car, par l’éclipse du pouvoir judiciaire, il généralise la marge discrétionnaire de la police qui, dans un état d’urgence devenu normal, agit de plus en plus en souverain.

Mantenimento di uno stato di paura generalizzato, depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia a qualsiasi certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello Stato di sicurezza che hanno tutti i numeri per far rabbrividire gli animi. Da una parte infatti lo Stato di sicurezza verso il quale stiamo scivolando fa il contrario di quanto promette, poiché se sicurezza significa assenza di preoccupazioni (sine cura ) esso al contrario sostiene la paura e il terrore. D’altra parte lo Stato di sicurezza è uno Stato di polizia, poiché attraverso l’eclissi del potere giudiziario generalizza quei margini discrezionali della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto la norma, sono sempre più determinanti.

Par la dépolitisation progressive du citoyen, devenu en quelque sorte un terroriste en puissance, l’Etat de sécurité sort enfin du domaine connu de la politique, pour se diriger vers une zone incertaine, où le public et le privé se confondent, et dont on a du mal à définir les frontières.

Attraverso la depoliticizzazione del cittadino, diventato in un certo senso un terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dal campo tradizionale della politica per dirigersi verso una zona grigia, nella quale pubblico e privato si confondono ed è difficile tracciare una linea di confine netta.

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Giorgio Agamben , “ De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité “ , Le Monde , 23 Décembre 2015 – Mis à jour le 27 Décembre 2015 .

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Die ökonomistische Auferstehung der Religion

Mani in preghiera

 

Die ökonomistische Auferstehung der Religion
von Robert Kurz

La resurrezione economicistica della religione
di Robert Kurz

Gott ist tot, sagte Nietzsche. Nietzsche ist tot, sagt Gott. Und zwar durch die Münder seiner neuesten Propheten, die merkwürdigerweise alle Volkswirtschaftler und Management-Theoretiker sind. Seit Beginn der neuen kapitalistischen Weltkrise und der damit verbundenen neoliberalen Wende haben sämtliche Glaubensgemeinschaften angefangen, sich zu ökonomisieren auf Teufel komm raus. Die großen Kirchen verstehen sich zunehmend als Dienstleister in Sachen Sinnstiftung, die Trost und Erbauung verkaufen wie MacDonalds Hamburger oder Beate Uhse Reizwäsche. Und die finsteren evangelikalen Sekten, die von den USA aus die Dritte Welt missionieren, sind sowieso aufgebaut wie transnationale Konzerne, worin sie übrigens der Terror-Organisation Al Kaida gleichen. Überall werden die Gemeinden durchrationalisiert wie VW und die Glaubensmärkte erforscht wie die Märkte für Schokoriegel oder für Tretminen. Marketing ist alles in einer Welt, die sogar Gott in eine Ware verwandeln kann und ihn so als wandelnde Leiche aus dem Grab erweckt hat.

Dio è morto, aveva detto Nietzsche. Nietzsche è morto, dice Dio. E, nella realtà, lo dice per bocca dei suoi nuovissimi profeti, curiosamente tutti economisti e teorici della gestione. Fin dall’inizio della nuova crisi capitalista mondiale, e della svolta neoliberista ad essa associata, le comunità religiose hanno cominciato ad economicizzarsi completamente, con forza diabolica. Le grandi chiese si considerano sempre più come fornitrici di servizi per quel che attiene le questioni vitali, vendono consolazione e moralità, allo stesso modo in cui McDonald vende hamburger o Beate Ushe vende biancheria intima provocante. E le tenebrose sette evangeliche, che dagli Stati Uniti missionano il Terzo Mondo, si organizzano come conglomerati transnazionali, assomigliando in questo all’organizzazione terroristica di Al Qaeda. Dappertutto, le congregazioni sono oggetto di razionalizzazione, come la Volkswagen, ed esplorano i mercati della fede, allo stesso modo in cui si esplorano i mercati delle tavolette di cioccolato o quelli delle mine anti-uomo. Il marketing è tutto il mondo in cui Dio stesso arriva ad essere trasformato in una merce, ed in tal modo viene resuscitato dalla tomba come un cadavere ambulante.

Nachdem sich die Religion freundlicherweise derart ökonomisiert und dem Zeitgeist an den Hals geworfen hat, beeilen sich nun im Gegenzug die Ökonomen ebenso höflich, ihren Gegenstandsbereich religiös zu machen. Man erinnert sich dankbar der 1905 erschienenen Untersuchung von Max Weber über den inneren Zusammenhang von Kapitalismus und Protestantismus, wobei inzwischen gnädigerweise auch der Katholizismus und die Religiosität überhaupt in das volkswirtschaftliche Wohlwollen einbezogen werden. Lediglich dem Islam wird nachgesagt, wen wunderts, dass er Privateigentum und Wettbewerb nicht so ganz mag. Ansonsten aber ist nicht nur Geiz geil, sondern auch Gläubigkeit. Wie immer geht es dabei in der Volkswirtschaftslehre streng wissenschaftlich zu. So hat, wie das Handelsblatt berichtet, der Harvard-Wachstumstheoretiker Robert Barro zusammen mit Rachel McCleary in 59 Ländern untersucht, ob das “Ausmaß der Religiosität” eines Landes “signifikante Korrelationen zu makroökonomischen Variablen wie dem Pro-Kopf-Einkommen” aufweist. Und siehe da: Überall dort, wo intensiver als anderswo “der Glaube an Himmel und Hölle” ausgeprägt ist, da gibt es auch eine tolle “Performance der Volkswirtschaft”. Wer das für Realsatire hält, kommt in die Hölle.

Dopo che la religione è stata in questo modo amabilmente economizzata ed ha chinato la testa allo spirito del tempo, ora gli economisti si apprestano a convertire con la stessa delicatezza il dominio della loro specialità in una religione. Viene ricordato con riconoscenza lo studio di Max Weber, pubblicato nel 1905, sulla connessione interna fra capitalismo e protestantesimo, mentre viene pietosamente incluso nella benevolenza dell’economia nazionale anche il cattolicesimo e la religiosità in generale. Solamente dell’Islam si continua a dire che sosterrebbe di non amare troppo la proprietà privata e la concorrenza. D’altra parte, tuttavia, non è soltanto l’avidità ad essere attraente, ma anche la fede. Come sempre avviene nell’economia politica, tutto accade in maniera strettamente scientifica. Così, come riferisce il giornale Handelsblatt, il teorico della crescita di Harvard, Robert Barro, insieme a Rachel McCleary, ha studiato, in rapporto a 59 paesi, se la ” dimensione della religiosità “ di un paese presenti  ” significative correlazioni con le variabili macroeconomiche quali il reddito pro-capite “. E andiamo a vedere: dappertutto, dov’è più intensa “la fede nel cielo e nell’inferno “, si ha sempre anche una più fantastica ” performance dell’economia nazionale ” . Chiunque consideri tutto questo una satira della realtà, può andare all’inferno!

Dieses postmortale Schicksal droht Stefan Baron, dem Chefredakteur der Wirtschaftswoche, garantiert nicht. “Macht Glaube erfolgreicher?”, titelte sein Blatt rechtzeitig vor Weihnachten, illustriert durch Dürers “betende Hände” – um die positive Antwort sogleich am Beispiel der Sparten “Politik, Management, Karriere und Geld” durchzuexerzieren. “Am Ende wird Glauben sogar zu einem Gebot der Vernunft”, sinniert der Chefredakteur, und sieht zusammen mit dem nicht mehr ganz taufrischen Philosophen Jürgen Habermas eine “post-säkulare Gesellschaft” heraufziehen.

Questo destino dopo la morte, sicuramente non minaccia Stefan Baron, redattore capo del settimanale Wirtschaftswoche. ” La fede porta più successo ? “, titola il suo periodico, opportunamente prima di Natale, illustrato con la riproduzione delle ” Mani in preghiera “ di Dürer – per poi subito rispondere affermativamente, nella rubrica ” Politica, Gestione, Carriere e Denaro “ “Alla fine, la fede è un comandamento della ragione “, osserva il redattore capo, che, insieme al filosofo, non del tutto fresco, Jürgen Habermas, vede avvicinarsi una ” società post-secolare “ .

Vielleicht geht es aber den Ökonomen in Sachen Religiosität weniger um den Erfolg als vielmehr um die Krisenbewältigung. Schon der Religionsverächter Voltaire hatte ja bemerkt, Gläubigkeit seit gut für Dienstboten und Frauen, um diese Teile der Menschheit besser unter der Knute halten zu können. Denn der Glaube, so hat Robert Barro weiter herausgefunden, bewirkt meist Tugenden wie Arbeitsmoral und nicht zuletzt Duldsamkeit. Die Religion als “überlebenswichtige Voraussetzung eines Moralgerüsts” (Stefan Baron) läßt womöglich auch die Akzeptanz von Hartz IV und anderen sozialen Scheußlichkeiten steigen. Dann bräuchte die Schröder-Regierung auch gar nicht mehr stimmungsaufhellende Psychopharmaka ins Trinkwasser schütten lassen, wie einige Verschwörungstheoretiker argwöhnten, sondern volle Kirchen würden genügen. Freilich, wenn das alles der schiere Blödsinn ist, dann könnte das Titelbild der Wirtschaftswoche ungewollt eine andere Krisenbotschaft enthalten, nämlich die ziemlich trostlose, dass der kapitalistischen Welt nur noch beten hilft.

Forse per gli economisti, per quanto riguarda le questioni della religiosità, si tratta non tanto del successo, quanto, al contrario, dell’amministrazione della crisi. Già il canzonatore della religione, Voltaire, aveva detto che la fede era buona per i mocciosi e per le donne, per poter mantenere meglio sotto la sferza questa parte dell’umanità. Dal momento che la fede, come ci rivela Robert Barro, il più delle volte dà luogo a virtù come la morale del lavoro e, non da ultimo, la pazienza. La religione come  ” condizione vitale per un sostegno morale “ (Stefan Baron) forse permette addirittura di aumentare l’accettazione dell’Hartz IV e delle altre mostruosità sociali. Così, il governo di Schröder non avrà più bisogno di fare sciogliere psicofarmaci nell’acqua potabile, per migliorare l’umore, come sospettano alcuni teorici della cospirazione, in quanto basteranno le chiese piene. E’ ovvio che, se tutto questo è una stupidaggine, può darsi che la copertina del Witschaftswoche contenga involontariamente un altro genere di messaggio sulla crisi, ossia, un messaggio senza speranza per cui soltanto la preghiera può servire ad aiutare il mondo capitalista.

 

Bibliografia

Robert Kurz, “Die ökonomistische Auferstehung der Religion “ , erschienen im ” Neuen Deutschland “ , Berlin, 23 Dezember 2004 .

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Photo : Albrecht Dürer , ” Betende Hände “ , um 1508
Pinselzeichnung auf blau grundiertem Papier, 29,1 × 19,7 cm
Kunst Museum Albertina , Albertinaplatz, Wien (Österreich )

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Rainer Maria Rilke, l’anti- Brecht .

Rilke

 

 

Rainer Maria Rilke, l’anti- Brecht .

Pochi, o forse nessuno dei maggiori poeti europei del primo Novecento ha avuto un’influenza così vasta come Rainer Maria Rilke . Con la sua opera, lui che era il meno radicato in una cultura nazionale, il più nomade e apolide e “ senza dimora “ , riuscì presto a creare un clima spirituale d’epoca e, intorno a sé, una specie di aureola sacrale e magnetica.

Una delle sue prime raccolte, “ Il canto d’amore e di morte dell’alfiere Cristoforo Rilke “ , una serie di impressionistici frammenti e quadretti in prosa , segnò una intera generazione. Come spiega Ladislao Mittner , questo libro considerato mediocre e non riuscito dallo stesso Rilke , composto nel 1899 e pubblicato nel 1906, “ ebbe un successo travolgente e con ogni probabilità senza precedenti nella storia della letteratura mondiale : cinquemila copie ne furono vendute nelle prime tre settimane, qusi duecentomila entro il 1922. Il neoromanticismo alquanto convenzionale di questo poemetto , che sembra anche celebrare la gloria militare e la morte in guerra, mentre in realtà canta soltanto un languido desiderio giovanile di dissolversi e morire dopo il momento incomparabile della prima felicità amorosa, corrispondeva ad un certo gusto estetico vago ma intenso ”  dell’epoca: e “ moltissimi furono nella Germania del 1914 i giovani che partirono per il fronte con il funesto viatico ”  di questo libro nello zaino e vissero la guerra in un’mbigua esaltazione eroico-sentimentale morbosamente decadentistica “.

L’influenza di Rilke si estese in Europa fino agli anni Trenta ed era in precedenza arrivata in Russia , coinvolgedo anche personalmente Boris Pasternak e Marina Ivanovna Cvetaeva in un intenso e platonico triangolo poetico-erotico. Solo dopo la Seconda guerra mondiale l’astro di Rilke si offuscò rapidamente. Prima adorazione, poi ripudio e infine indifferenza : “ In definitiva Rilke fu battuto non da Gottfried Benn ”  scrive Ladislao Mittner  “ ma piuttosto da Bertolt Brecht “ .

Oggi, che l’influenza di Bertolt Brecht è a sua volta declinata, Rainer Maria Rilke ha ritrovato qualche sacerdote soprattutto tra filosofi, magari ex marxisti che, non distinguendo abbastanza fra Walter Benjamin e Martin Heidegger, aspirano a sacralizzre il discorso filosofico ,sospingendolo verso origini presocratiche o cabalistiche o variamente teologiche.

Rainer Maria Rilke è un autore perfetto per chiunque aspiri a procursi genealogie e blasoni spiritualmente nobiliari. Lui stesso, il grande poeta della decadenza europea e del crollo della sua tradizione, “ il primo uomo senza casa , amante di solitari castelli, come quello di Duino presso Trieste, che gli ispirò la sua oper maggiore, le “  Elegie duinesi “, ha sempre nutrito una intensa vocazione mistica e nobiliare. Contagiato dalla mania aristocratica dei genitori, che volevano apparire a tutti i costi nobili senza esserlo, Rilke fin da giovane si presentò come il fatale “ ultimo rampollo di un’antica famiglia ” , mescolando suggestivamente gerarchie celesti e gerarchie sociali, decadenza angelica e decadenza nobiliare.

Il misticismo rilkiano aveva avuto però un momento di illuminazione populistica durante il viaggio compiuto in Russia nel 1899 con la scrittrice e psicoanalista tedesca di origine russa Lou von Salomé, anche nota come Lou Andreas-Salomé ( amata da Friedrich Wilhelm Nietzsche e Sigmund Freud ) :  “ solo chi come i poveri , i vagabondi e mendicanti russi, non ha niente e insieme non aspira alla ricchezza, comunica veramente con la vita naturale e divina che ancora scorre sotto la gelida scorza della civiltà moderna “ . Molte cose si mescolano nella cultura rilkiana : umanesimo evangelico e psicologie del profondo, misticismo teosofico e spiritismo : da Tolstòj e Tagore fino a Rudolf Steiner e Annie Wood Besant.

 

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi l’ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.
Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.
Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.

 

In questa celebre poesia giovanile, “ Foglie d’autunno “ , considerata uno dei suoi proverbiali capolavori, c’è tutto il perentorio e fatale tono rilkiano di abbandono e solitaria sconfitta ma anche di attesa di una sempre possibile pienezza vitale invocata come un avvento religioso capace di riscattare uomo e natura dal loro avvilimento.

 

Bibliografia

Ladislao Mittner, “ Storia della letteratura tedesca” , Volume III, Tomo 2, Ed. Einudi, Torino, 2002
Marina Ivanovna Cvetaeva , Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, “ Il settimo sogno : lettere 1926 “ ; a cura di Konstantin Azadovskij, Elena e Evgenij Pasternak ; edizione italiana a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti , Roma, 1994.
Rainer Maria Rilke, “ Foglie d’autunno “ , da il “ Libro delle immagini “, in : Rainer Maria Rilke , “ Poesie “  ( Contributi di : Hermann Hesse , Georg Trakl e Franco Fortini ; Traduzione di : Giaime Pintor ), Ed. Einaudi, Torino, 1966 .

 

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Photo : Rainer Maria Rilke

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William Butler Yeats, sui mitici passi .

Yeats

 

William Butler Yeats, sui mitici passi .

Nonostante la sua riconosciuta grandezza di poeta, la dedizione appassionta alla causa nazionale dell’Irlanda, al bisogno di affrancarsi dal secolare dominio inglese, ben poco rispetto formale ebbe William Butler Yeats dai suoi compatrioti. Per la sua immancabile solennità e trasognatezza, per la sua fede nell’occulto, William Butler Yeats veniva accusato di “ stramberia, di voluta oscurità e di avere atteggimenti da poseur “ . Aggressività denigradoria attirata probabilmente anche dalla fede intera e candida che William Butler Yeats aveva nei suoi ideali in cui politica patriottica , simboli poetici e sedute spiritiche coesistevano in perfetta unità .

Il suo nazionalismo, almeno nella prima parte della sua opera, si esprimeva come sogno dell’incantato paese delle fate irlandesi, un mondo di miti e di storie fatali che erano per Yeats più reali di ogni realtà . La passione per l’invisibile e il paranormale ( fu seguace di madame Helena Blavatsky, – pseudonimo di Helena Petrovna Hahn , – fondatrice della Società Teosofica ) , resta uno dei lati più bizzarri , quanto più deboli della cultura di questo indiscusso genio letterario , da alcuni considerato il maggior poeta di lingua inglese dopo i romantici, da William Wordsworth a John Keats.

In “ Il castello di Axel . Studio sugli sviluppi del simbolismo tra il 1870 e il 1930  “ , il critico letterario, scrittore e poeta americano Edmund Wilson sottolinea il carattere coerente, oggettivo e organico del sistema di immagini simboliche di Yeats rispetto a Stéphane  Mallarmé, caposcuola del simbolismo francese. William Butler Yeats, scrive Edmund Wilson , “ trasferendo il simbolismo in Irlanda , lo arricchì di nuovi valori e gli diede un accento particolare, che ci induce a considerare la poesia yeatsiana alla luce delle sue qualità nazionali “ . E’ la scoperta e l’uso della mitologia celtica e delle tradizioni popolari irlandesi a rendere il simbolismo di Yeats meno arbitrario e inafferrabile di quello di Mallarmé, meno esclusivamente vincolato ai movimenti associativi della mente del poeta e più fondato su un sistema di miti radicato nell’immaginrio collettivo, per quanto sommerso e in parte dimenticato.

L’affermazione di Yeats secondo cui tutta “ la grande letteratura è fatta di simboli “ deve essere integrata e letta alla  luce dell’altra, che dice : “ La buona letteratura è un po’ simile alla storia narrata da una vecchia comare “ . La grande letteratura non è possibile senza un autentico senso della concretezza linguistica, della lingua parlata e perfino di un certo sapore locale.

 

Who dreamed that beauty passes like a dream?
For these red lips, with all their mournful pride,
Mournful that no new wonder may betide,
Troy passed away in one high funeral gleam,
And Usna’s children died.

We and the labouring world are passing by:
Amid men’s souls, that waver and give place
Like the pale waters in their wintry race,
Under the passing stars, foam of the sky,
Lives on this lonely face.

Bow down, archangels, in your dim abode:
Before you were, or any hearts to beat,
Weary and kind one lingered by His seat;
He made the world to be a grassy road
Before her wandering feet.

 

Chi sognò che la bellezza trascorre come un sogno?
Per queste rosse labbra con tutta la loro fierezza dolente ,
Dolente che nessun nuovo prodigio possa accadare,
Troia passò in alto funereo splendore,
E i figli d’Usna perirono.

 

Noi e il mondo travaglioso trascorriamo:
Fra leanime degli uomini, che ondeggiano e si traggon d parte,
Come pallide acque nel lor corso invernale,
Sotto le stelle trascorrenti, spuma del cielo,
Sempre vive quest’unico volto .

 

Inchinatevi, arcangeli, nella vostra dimora in penombra:
Prima che voi foste, prima che un cuore palpitasse,
Benigna e languida una indugiava presso al Suo seggio ;
Ei fece il mondo perché fosse erbosa via
Dinanzi ai piedi errabondi di lei.

 

La sovrana bellezza femminile che appare in questa “ The Rose of the World” ( Rosa del mondo ), che William Butler Yeats scrisse a venticinque anni, è da collegarsi alla “ figura della donna di fine secolo “ . E molto probabilmente le “ labbra con tutta la loro fierezza dolente “  sono quelle della donna di cui Yeats per decenni fu innamorato e che invece gli concesse solo amicizia : Maud Gonne MacBride, la rivoluzionaria femminista e attrice irlandese che rimase sempre, nelle sue varie trasfigurzioni poetiche, un tema essenziale dei suoi versi.  Non è la bellezza, dice William Butler Yeats, a trascorrere come un sogno . Siamo noi, invece, e il nostro mondo di fatica e di dolore, a passare. Per Yeats, il mondo fu creato da Dio stesso perché quella donna vi posasse i suoi piedi . Lei che di volta in volta ricompare in forme e miti diversi : Elena di Troia, per esempio, o Deirdre, la mitica regina irlandese per la quale, secondo un’antica leggenda , i figli del re Usna morirono .

 

Bibliografia

Edmund Wilson, “ Il castello di Axel . Studio sugli sviluppi del simbolismo tra il 1870 e il 1930 “ , Ed. Studio Editoriale, Milano, 1988.
William Butler Yeats, “ The Rose of the World “ , in : William Butler Yeats, “ Quaranta poesie ” ( Prefezione e traduzione a cura di Giorgio Melchiori ) , Ed. Einaudi, Torino, 1965 .
Giorgio Melchiori, “ The Whole Mystery of Art: Pattern into Poetry in the Work of W.B. Yeats “ , George Routledge & Kegan Paul, London, 1960 .

 

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Photo : William Butler Yeats, 1916

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Attila József, lirico proletario.

Attila József

 

Attila József, lirico proletario.

E’ anzitutto da un impetuoso bisogno di coscienza che nasce la poetica di Attila József . Attraverso la coscienza e la parola del poeta la realtà diventa trasparente a sé stessa. C’è in Attila József quasi un’epica della coscienza, che prende forma ed esce dall’indistinto dando voce ad un’oppressione che dura da secoli ( “centomila anni “ , “ centomila avi “ ) .

 

Da centomila anni sto guardando
quello che ora soltanto vedo.
Dunque è un attimo tutto il tempo
che centomila avi in me stanno guardando .

Quello che non videro, intenti a zappare,
a ubbidire, a uccidere, ad amare,
e quello che vedono, giù nella materia,
più a fondo di me – bisogna confessarlo.

Ci conosciamo, noi, come la gioia il dolore.
Io posseggo il passato, essi il presente.
Scriviamo versi – mi guidano la penna.
Ricordo, e in me li sento .

 

Così, pensava Attila József, la poesia è necessaria alla classe operaia . E  il “ poeta socialista” deve conoscere a fondo le condizioni della sua attività di produttore di coscienza. Il suo compito e la sua ispirazione sono universali e sociali : come universale e sociale è , nello stesso tempo, la coscienza di classe degli operai. Perciò, scrive Attila József, “ tutto quanto faccio entrare in una poesia deve avere senso per tutta la società, In sostanza, il contenuto della forma artisticamente è sempre universale e sociale “ .

In un Paese nel quale la borghesia delle professioni h avuto uno sviluppo tardivo non riuscendo ad assumere un preciso ruolo politico, questo ruolo, fin dalla insurrezione nazionale del 1848, è stato svolto per lo più d piccoli gruppi o da figure isolate di intellettuali e scrittori. Nelle pagine in cui il poeta ungherese Attila József si sforza di costruire una adeguata teoria marxista della poesia e dell’arte, questa decisiva importanza storica intellettuale-scrittore è evidente e dichiarata. Già gli altri due grandi poeti ungheresi, Sándor Petőfi e Endre Ady de Diósad, erano stati protagonisti della storia politica e culturale dell’Ungheria.

In un saggio citato da Beatrix Töttössy nella sua introduzione, il filosofo e critico letterario György Lukács forniva un quadro di questa situazione degli scrittori ungheresi, capaci di interpretare una condizione storica in quanto proprio in quanto sdraticti : “ Non esiste una cultura nella quale “  scrive Lukács, gli intellettuali “ possano inserirsi, e la vecchia cultura europea per questo aspetto non significa nulla, quindi la comunità che essi vagheggiano potrà realizzarsi solo in un futuro lontano “ . Nel suo “isolmento immenso (…) l’uomo ungherese di oggi ha bisogno della rivoluzione . Non perchè il tempo della rivoluzione sia arrivato o perché essa sia utile, né perché porterebbe con sé dei nuovi valori e distrugerebbe le vecchie ingiustizie, ma per avere un terreno nel quale piantare il suo amore senza radici “ .

Figlio della classe operaia e nello stesso tempo solo e senza radici era anche Attila József, di una generzione più giovane, rispetto a Endre Ady de Diósad e György Lukács . Attila József è il poeta degli anni che vanno dalla fine della Repubblica ungherese dei soviet ( 1919) alla restaurazione autoritaria di Miklós Horthy de Nagybánya , che instaurò un regime repressivo durato fino alla Seconda guerra mondiale.

Poeta dissonante ed espressionistico, ma anche portato realizzare uno stile di classica perfezione, Attila József pubblicò nel 1922, a soli 17 anni, il suo primo libro di versi . I suoi versi violenti e provocatori esprimevano una disperazione innocente e blafema in cui tutta una generazione giovani ungheresi poteva specchirsi.

Ma i suoi rapporti con l’ambiente letterario e il Partito comunista clandestino ( a cui aderì nel 1930) furono sempre difficili, se non drammatici. Criticato ferocemente dai comunisti ungheresi emigrati in Russia, non invitato al Primo congresso degli scrittori sovietici che si tenne a Mosca nel 1934, Attila József riuscì anche ad alienarsi con la sua indipenza di pensiero la maggior prte dei critici : “ Negli anni Trenta József  non riuscì a modificare l’atteggiamento ostile della critica ufficiale e raccolse uno scarso consenso presso la stessa critica progressista. Il peggioramento della sua neurastemia e le gravi ristrettezze segnarono gli ultimi anni di un vita conclusa col suicidio “ (A. Di Francesco – M. Kosezgi )  avvenuto il 3 dicembre 1937, a soli 32 anni , a Balatonszárszó, travolto da un treno di passaggio mentre si trovava sdraiato sui binari. L’ipotesi del suicidio è la più accreditata, anche se alcuni studiosi non escludono l’incidente. A Balatonszárszó, presso il luogo della sua morte è posto un cippo memoriale che ricorda Attila József , uno dei più grandi e più importanti poeti ungheresi del XX secolo .

 

Bibliografia

Beatrix Töttössy , “Attila József. La coscienza del poeta “ , Ed. Lucarini, Roma, 1988
Attila József, “ Da centomila anni “, estratta da “ Presso il Danubio “, in : István Mészáros , “Attila József e la poesia moderna “, Ed. Lerici, Milano, 1964
Amedeo Di Francesco e Marta Kosezgi, “ Poeti ungheresi del Novecento” , Ed. Lucarini, Roma, 1990

 

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Photo : József Attila, Budapest, 1935

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