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Storia di gente normale .

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Storia di gente normale .

 

I.

La “ necropoli “  di Ain el-Labakha a 200 Km ad ovest del Nilo, nell’oasi del el- Karga, alla quale è difficile accedere, se non offre al visitatore particolari attrattive ,  ci dice molto sulla vita degli antichi Egiziani più di quanto non potrebbe fare la letteratura dei testi geroglifici .

Ain el-Labakha era un villaggio di contadini egiziani vissuti tra il I e il  III secolo d.C. ,  ai confini dell’impero romano .  Vi risiedevano probabilmente anche soldati romani con le rispettive famiglie, come sembra testimoniare la presenza dei resti di un’antica fortezza . La popolazione si componeva di 500, forse di 100 abitanti,  che dovevano sopravvivere con risorse pittosto  modeste :  uomini, donne e bambini lavoravano in modo duro, soffrivano fisicamente, ma credevano in una vita dopo la morte.  Per questo praticavano l’imbalsamazione che un tempo, nell’apogeo della civiltà egiziana ( tra il 1500 e il 1000 a.C. ) , era invece riservata ai faravoni, ai loro congiunti e ai loro dignitari .

 

II.

Il  sito di Ain el-Labakha si trova nella grande oasi di el- Karga, 200 Km ad ovest del Nilo, a sud-ovest di Luxor. Immersi in un paesaggio desertico, si conservano i resti di due tempi in mattoni crudi – uno dei quali scavato per metà nella roccia, – una fortezza e, soprattutto, una necropoli che conta una cinquantina di tombe, scavata in una ripida parete rocciosa. In queste tombe, i corpi degli antichi abitanti , ben conservati grazie alla “ mummificazione “ , hanno potuto rivelare informazioni   preziose .

Più che all’architettura e agli arredi funerari , l’attenzione va rivolta alle “ mummie “ , facendo di fatto  “ rivivere“ gran parte della popolazione che viveva ad Ain el-Labakha all’epoca di Cristo.

Il vantaggio di poter osservare- photografare “ in loco “  delle mummie risiede nella possibilità di poter succesivamente esaminare, nel fluire del tempo, non in loco , a mezzo studi-osservazioni photografici,   una “ popolazione omogenea “  di cui si conosce in modo preciso la provenienza, diversamente dallo studio-osservazione delle  ricerche svolte nei musei, su mummie isolate.

Inoltre, dalle “ photo “  scattate,  a distanza più che ravvicinata in loco ,  è possibile ( entro certi ragionevoli limiti) poter eleborare, a mezzo tecnologia informatica,  una (ri)costruzione computerizzata della “ radigrafia “  delle mummie che fornisce informazioni preziose : essa permette, per esempio, di determinare l’età della morte, la causa del decesso, lo stato di salute dell’individuo; ma anche, partendo da questi dati , le sue attività, le sue condizioni di vita e la sua classe sociale. In tal modo, è  possibile osservare le “ colonne vertebrali bloccate dai reumatismi “ , segno di intense attività fisiche, come il trasporto di carichi pesanti, attività  propria dei “ fallah” , dei  contadini.

Con la  (ri)costruzione computerizzata della   “ radiografia “ si ha, anche, la facoltà di poter dimostrare  che molti contadini di Ain el-Labakha sono morti di “ bilharziosi “ , una malattia parassitaria che si contrae lavorando con i piedi nell’acqua ; non si può avere prova più chiara del ricorso ad   un’ “ agricoltura d’irrigazione “ .  Quattro mummie di una stessa tomba presentano tracce di “ tubercolosi “ .  E la presenza di tracce di tubercolesi fa pensare, forse non a torto, che queste quattro mummie appartengono alla stessa famiglia, confermando l’ ipotesi che le sepolture familiari siamo state  numerose .

Un altro dato che scarurisce dagli studi- osservazioni radiologiche, svolti sulle mummie di Ain el-Labakha,   riguarda le “ lesioni dovute ad un arresto della crescita “ .  Queste tracce presenti sullo scheletro testimoniano che l’individuo , durante uno o più periodi della sua infanzia, soffrì di malnutrizioni o di malattie.  E queste lesioni, dovute ad un arresto della crescita, sono un indicatore della “ classe sociale “ , perché sono parametri che non possono mentire. Si potrà, anche, affermare che ad Ain el-Labakha  andava tutto a gonfie vele : ma se si trovano lesioni dovute ad un arresto della crescita sappiamo, senza alcun ombra di dubbio, che le persone non si nutrivano a sufficienza.

La popolazione di Ain el-Labakha era omogenea, di tipologia mediterranea, per lo più di carnagione chiara, nostante la vicinanza dell’antica Numbia e del Sudan.  Gli abitanti erano  alti in media 1,65 m, piuttosto minuti e longilinei. Era una popolazione rurale, pacifica, che si alimentava in modo relativamente corretto. Tuttavia morivano giovani : 50 anni era un’età già avanzata. E a volte si moriva di morte violenta, come dimostra il cranio di un bambino dal capo fracassato.

 

III.

I contadini e i soldati di quella remota regione a 200 Km ad ovest del Nilo, a sud-ovest di Luxor, perpetuavano fedelmente la tradizionale religione egizia e le sue pratiche funerarie. Lo splendore dei faravoni delle dinastie della valle del Nilo all’epoca non era che un ricordo, e il Paese aveva subito le successive invasioni da parte dei Persiani, dei Greci e dei Romani.  In quell’epoca tarda,  la religione tradizionale egizia inizia a trasformarsi, come la società; il cristianesimo comincia ad insediarsi in Egitto. Ma, nonostante tutto, è interessante osservare che i riti funebri rimangono gli stessi : la cultura tradizionale egizia mantiene il suo vigore.

Per tali credenze, la morte era solo un passaggio verso una seconda vita, eterna. Esse risalgono alla leggenda di Osiride, il dio dei morti. Per poter accedere al suo regno , promessa di vita eterna, l’involuicro carnale del defunto doveva restare intatto affinchè l’anima potesse riconoscerlo e ricongiungersi con esso.  In seguito si intraprende un percorso iniziatico, durante il quale il defunto ricorda le sue azioni da vivo. Per questo si ricorreva alla “ mummificazione “, che comportava l’asportazione degli organi e del cervello, l’imbalsamazione e la bendatura ; è un’arte che gli Egiziani perfezionarono nell’arco di mille anni e che i modesti abitanti di Ain el-Labakha  hanno mostrato di conoscere a menadito.

Insieme agli arredi funerari presenti nelle tombe e alle rappresentazioni delle divinità tradizionali – tra gli altri Osiride e Anubi , il dio cane , – le mummie offrono una testimonianza della persistenza di queste credenze e di questa abilità tecnica, destinata di lì a poco a scomparire ( i cristiani-copti vietarano le pratiche religiose pagane nel V secolo d.C., sotto l’imperatore Teodosio I ; la mummificazione, invece, sparì solo con la conquista araba nel VII secolo d.C. ) . Esse offrono informazioni anche sulla differenza sociale dei vivi, e non soltanto sul loro stato di salute : ritroviamo le tre classi “  di mummificazione descritte nel V secolo a. C., da Heròdotos,  delle quali la migliore era riservata, naturalmente, ai cittadini più agiati. Alcune mummie di Ain el-Labakha  avevano, così, una sottile pellicola d’oro su varie parti del corpo, ultime vestigia delle maschere d’oro dei faravoni, simbolo della divinizzazione dell’indivuduo.

 

IV.

Certo è, però, che (ri)trovarsi di fronte a qualcuno morto da 2000 anni e che sembra volerti narrare la sua vita è impressionante,  lascia attoniti.  Nella  realtà , di fronte a questi visi che hanno mantenuto intatti nel tempo lineamenti ed espresioni , è difficile rendersi conto e convincersi che si tratta solo di reperti archeologici.  Alcuni sono  sereni, altri mostrano le stimmate della sofferenza.

Messi a parte i dati prettamente storiografici, sono la personalità della gente e la sua esistenza di tutti i giorni che emergono con forza da queste mummie, quando ci si ricorda di (ri)trovarsi di fronte alle mummie di bambini e di donne . Le fonti documentali ci dicono che la mortalità infantile era elevata e che le donne morivano spesso di parto; ma una cosa è leggerlo qui, nel testo dell’espozione di questa “ Storia di gente normale “  , un’altra è il (ri)trovarsi di fronte alle mummie di questi bambini e di queste donne .

Le mummie di Ain el-Labakha, per quanto anonime e modeste, se non offrono al visitatore particolari attrattive ,  ci dicono molto sulla vita degli antichi Egiziani più di quanto non potrebbe fare la letteratura dei testi geroglifici . E così, le mummie dei “ fallah”, dei contadini, di Ain el-Labakha  ci hanno rivelato  il loro segreto senza scoperchiare le loro tombe. Gli uomini di questo inizio del XXI secolo hanno (ri)trovato , per il tempo di un breve incontro, gli uomini dell’alba dell’era cristiana, ancora dediti alla religione di un’altra civiltà; e li hanno, cercando di capire quel loro  “ noi, noi , siamo qui muti che parliamo ; e essi, essi, che sanno solo parlare  sono laggiù lontani muti nel chiarore  “ ,   rispettosamente resi al loro sonno eterno .

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L’enigma della sfinge .

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L’enigma della sfinge .

Immagini e passaggi nel mondo dei miti

 

I.

Antefatto

Chi osserva l’immagine della sfinge di Giza ( lunga 73,5 m, alta 20,22 m e larga 19,3 m di cui solo la testa è 4 m )  si rende,  subito,  conto che quella colossale realizzazione del faravone Chefren era al contempo un’immagine sacra e regale. Essa rappresenta infatti il sovrano, nel suo aspetto di divintà solare.  Quasi mille anni dopo Chefren, Tutomosi IV continuava a venerarla come una divinità e narra di quando, ancora giovane principe, aveva riposato all’ombra di quella sfinge, pressochè sepolta nella sabbia. In sogno gli era apparso il dio in essa raffigurato, che gli aveva chiesto di dissabbiare la sua immagine e gli aveva promesso la conquista del trono.

L’iscrizione che Tutomosi IV fece poi incidere sulla stele collocata tra le zampe anteriori del monumento ricorda anche il nome dell’essere divino rappresentato in quell’enorme leone dal volto umamo : un dio-Sole, che era detto Harmachis, cioè “ Horo nell’orizzonte “ , per indicare la divina potenza del faraone nel momento culminante della sua gloria, cioè, appunto, quando il sole sorge all’orizzonte .

 

II.

La figura sacrale

Nella storia di questa composita figura che ha attraversato i secoli, il primo dato importante  è la sua sacralità : in Egitto, la sfinge era un’immagine del faraone e insieme una statua divina.  Fin dal periodo più antico compaiono anche sfingi dal volto femminile, con il volto privo di barba e tratti più delicati, per raffigurare la figlia e la sposa del faravone e magnificarne similmente la loro grandezza.

Gli stessi motivi, celebrativi della potenza del faravone, portano alla diffusione della sfinge nelle contigue regioni del mondo orientale siriano, mesopotanico e anatolico, dove essa trovò buona accoglienza nelle diverse religioni e nelle varie forme espressive artistiche . Nel corso del II millennio a. C. , più precisamente, gli artigiani del Vicino Oriente raffigurarono quell’immagine del faravone, diffusa a scopi propagandistici fin nelle città costiere della Siria, adattandone la tipologia al proprio repertorio figurativo.

Restava, nelle loro opere, il carattere sacro dell’immagine. ma essa veniva ripetuta come motivo iconografico indipendente dai significati originari e veniva applicata a nuovi valori e tipologie. Ne sono un esempio le sfingi che fianchegguano il trono regale con funzione apotropaica, quelle raffigurate presso porte, altari e tombe con compiti di sorveglianza, le sfingi predatrici riprodotte nell’ atto di schiacciare i nemici o ancora le sfingi utilizzate con una più semplice valenza ornamentale, come sono  quelle rampanti in coppia intorno all’ “ albero della vita” .

Dal profilo dei modi e tempi di  questa evoluzione artistica, alla posizione classica della sfinge accovacciata, propria delle immagini dei sovrani egiziani,  si aggiunge nei Paesi del Levante quella della  “ sfinge a gradiente “ , tipica dei cilindri paleosiriani, e poi quella della sfinge seduta sulle zampe posteriori e fornita di ali vistose, elemento, quest’ultimo, desunto forse dall’immaginario di un altro essere composito,  il “grifone“ .  Come motivo figurativo, inoltre, la sfinge viene utilizzata anche nella cosidetta “ arte minore “  ( avori, sigilli, scarabei e ceramica), per la decorazione di oggetti d’ uso funerario, di gioielli e d’arredi.

Nel corso del II e del I millennio a. C., l’Egitto continua a svolgere una funzione centrale nell’elaborazione e diffusione di questo motivo, accogliendo le innovazioni che giungono dai Paesi dell’ Oriente e ricreandole in modo originale, con l’aggiunta di nuove varianti,  che da qui nuovamente  si diffondono, in base alle tipologie elaborate in Oriente; queste raggiungono Cipro, Creta, Micene, e poi Sparta, Delfi, Atene, l’Etruria e i centri fenici d’Occidente, fino alla Sardegna e all’ Iberia .

Il mondo greco, in specie, accolse con entusiasmo l’immagine orientale della sfinge, come elemento decorativo, per farne qualcosa di nuovo e di diverso significato.  I documenti greci più antichi attestano l’uso ornamentale della sfinge, per esempio su vasi protocorinzi, corinzi, rodii, laconii, milesii, cretesi, e l’attribuzione ad essa del valore sovraumano di guardiano delle tombe e dei luoghi sacri in genere; ma  presto è attestata, anche, una nuova vita per questa figura , che si trasforma in un inquietante demone femminile e s’introduce a viva forza in una tradizione mitica tanto antica quanto diffusa: quella relativa alle vicende tebane di Edipo, raccolte in una saga e cantate da poeti. E’ questa la sfinge pià famosa nel mondo classico ; è anzi “ la  “ Sfinge par excellence , al singolare, un essere dotato di personalità precisa e temibile .

 

III.

Dal  verbo “ Strozzare “

Che sia una minaccia, lo dice già il nome : “ Sfinge “ deriva dal greco   “ Sphynx “  che significa “ strangolatrice “   e indica un essere mostruoso, nato da mostri. Ci dicono Esiodo e Apollodoro che “ Sfinge nefasta “  era figlia di Echidna, l’orrido essere del caos iniziale, metà fanciulla e metà serpente che aveva partorito anche Cerbero, Chimera, Idra e Otro. Quest’ultimo si era unito in incesto a sua madre Echidna, per far nascere appunto Sfinge, che aveva un corpo di leone, testa di donna, coda di serpente e ali d’uccello. Da questo punto di vista, le descrizioni degli scrittori classici corrispondono alla tipologia attestata nell’arte già per le sfingi orientali.

Per i greci, Sfinge era femmina, tanto che Heròdotos, per descrivere le monumentali sfingi maschili egiziane, fece ricorso al termine “ androsfingi  “ ( cioè “ sfingi – uomo “  ), quasi a rimarcare la differenza tra l’Oriente e la Grecia.  Sfinge aveva, anche , doti profetiche particolari e manifestava, con una voce umana, tremedi e oscuri oracoli divini.

 

IV.

Sulla strada per Tebe

“ Vergine sottile “ , “  Cagna tessitrice di canti “ e “ Mostro delle montagne “   la chiamarono i poeti : essa sorvegliava,  dall’alto del monte Ficio,  la strada per Tebe, proponendo ai Tebani un enigma, appreso dalle Muse, e uccidendo chi non riusciva a risolverlo.

A quel tempo il trono della città di Tebe  , fondata da Cadmo, era nelle mani di Creonte, fratello della regina Giocasta e cognato di Laio;  il re legittimo, Laio,  era stato ucciso da un viandante sconosciuto. Per porre fine alle sciagure di Sfinge, Creonte aveva stabilito di offrire il trono e la mano di Giocasta a colui che fosse riuscito a risolvere l’enigma. Così erano morti i figli di Creonte, Emone e altri principi.

Udì quel bando anche Edipo, figlio di Laio e di Giocasta che tutti credevano morto e che, senza conoscerne l’identità, aveva ucciso tempo prima il re Laio, suo padre . Anche a lui   Sfinge propose cantando l’enigma : “ V’è sulla terra un essere dotato di una sola voce, che ha due, quattro e tre piedi. Solo egli cambia il suo passo, tra gli animali, pesci e uccelli. Però quando cammina appoggiandosi su più piedi, il suo corpo è più debole ? “ . Edipo, senza esitare, rispose : “ O cantante dal volto sinistro, ascolta la mia voce che mette fine ai tuoi crimini . E’ l’uomo, che appena uscito dal seno materno cammina a quattro piedi, carponi, e poi s’appoggia al bastone, come a un terzo piede, quando il peso degli anni incurva il suo capo .  “   

Ecco, l’enigma era risolto : Sfinge per lo smacco si uccise, precipitandosi dalla rupe, mentre Edipo, sicuro del suo sapere e della sua potenza, si avviava al trono di suo padre e al letto di sua madre. Sfinge era sconfitta; o almeno così credeva Edipo ( in greco antico: “ Οἰδίπους “ ,  “ Oidípūs “ ) : Oidípūs in greco significa “ l’uomo dal piede gonfio “ e anche “ colui che sa ( l’enigma ) del piede “ .

Seguendo le orme degli antichi tragediografi, di Sofoclale e d’Euripide in specie, gli studiosi moderni, da Sigmund Freud a Claude Lévi-Strauss , si sono interessati soprattutto ai temi del parricidio e dell’incesto, ponendoli al centro della vicenda edipica. E tuttavia le antiche raffigurazioni del mito suggeriscono di non sottavalutare questi momenti della narrazione a scapito di altri : gli artisti greci , e soprattutto i pittori attici del VI-V secolo a. C., preferiscono infatti raffigurare il confronto tra Edipo e Sfinge, cioè il momento dell’enigma, indubbiamente ambiguo, come ambiguo era quell’essere composito che proponeva l’indovinello.

Per gli artisti greci, il mito di Edipo ruota intorno al personaggio di Sfinge, mostro, profetessa e guardiana, che di lì, davanti alla città di Tebe, evocava e reinterpretava la storia di quella bestia favolosa che i Greci avevano attinto dall’antico Oriente , per farle assumere poi significati aggiuntivi, distanti dai valori che ne avano segnato l’origine in Egitto, ma funzionali al nuovo contesto, culturale e religioso.

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