Neapolitanischen Tagebuch

migrante in tram

 

 

Neapolitanischen Tagebuch
Immagini e passaggi nella Napoli dei migranti

Li si vede, i migranti, specialmente la domenica sera. Bivaccano, condivendo l’uno con gli Altri, gli alimenti portati dalla Croce Rossa con i cestini . Non sono i migranti sbarcati sulle rive del mare dell’isola greca di Lesbo o sulle rive del mare di Lampedusa dove non pochi dei suoi abitanti sono “ gente di mare “  . E accolgono, gli abitanti di queste due isole, tutto ciò che il mare a loro può dare e tutto ciò che il mare a loro porta. Sono gli “ invisibili “  della stazione ferroviaria di Napoli Centrale. Dove arrivano i treni iperveloci, quelli dell’alta velocita, con l’etichetta più o meno tutta nuova e luccicante con la scritta “ TeniItalia “ . Ma nessuno dice loro : “  In carroza, signori si parte “, come diceva il commediografo, attore tatrale, compositore musicale, poeta e scrittore partenopeo Raffaele Viviani . Gli esseri umani si sono sempre spostati nella storia. Da soli o popoli interi, per fame di conoscenza, di cibo e di libertà. I migranti sono arrivati, ma nessuno se ne è accorto . Sono arrivati la Domenica delle Palme del 20 marzo 2016 o in un giorno di una Pasqua che non si sa quando sia arrivata . Sono moldave, russe, ucraine, georgiane, armene, rumene, bulgare, eritree, indiane, pakistane, filippine, indonesiane, ispano-amercane, cubane ( non molte ad onor del vero ) , arabe e arabi del Marocco, di Tunesia, di Algeria, “ nere “ e  “neri ”  della Costa d’Avorio, del Togo, del Camerum, della Nigeria. Alcuni migrati maghrebbini calzano sandali da cui fuoriesce la loro pelle avvizzita.

Hanno fame e sete. Hanno fame e sete di vita, di un elementare primum vivere legato alla vita che non accetta di essere subordinato, piegato, reso compatibile col primato di altre “ ragioni “ , logiche, calcoli, interessi, strategie, “ economie “ . Hanno dei telefonini cellulari coi quali comunicano con gli affetti lontani. Che a furia di stare lontani dimenticano . A volte per sempre .

I migranti sono, con la loro “ nuda vita “ , la testimonianza di come si possa fare della vita il mestiere più sicuro dell’incarnazione dei “ post-moderni Barboni “  nelle società del capitalismo contemporaneo e del liberismo mercatista . Sono i “ post-moderni Barboni “ , non i barboni . Alcuni hanno gli occhi fissi nel vuoto. Di sera e di notte. All’aba e di giorno . Raffiche di vento schiaffeggiano i volti grigioantrancite anche quando non sono neri .

Escono, più o meno a piccoli gruppi di tre o quattro o di cinque “Persone “ dal centro Better di Corso Garibaldi e di Via Imbriani . Lasciano, sparse a terra, una costellazione di bollette da 0, 50 € da 1, 00 € da 1, 50 € di sogni infranti con numeri del lotto mai usciti sulla ruota di chissà dove , giocando a rimpiattino con la vita che li ha esclusi perché non sanno. Non hanno. Non posso . Nessuno ha mai detto loro della Harvard University e della Berkeley University .

Siedono all’interno della stazione di Napoli Centrale, fingendo di aspettare il treno . Fingono di aspettare il treno, per non essere cacciati dalla stazione. Ma anche per loro , come per Estragone e Vladimiro, il loro “ En attendant Godot ” non arriverà. Il “signor “ Godot non arriverà.

Hanno tante età sui corpi e sui volti senza età. Delle lattine di birra fra le mani tra Piazza Garibaldi e i vicoli del “ Rettifilo “ ( Corso Umberto) , tra Via Cesare Rosaroll e Porta Nolana . Camminano con passo svelto, con andatura veloce, come se avessero fretta. Ma sanno che non c’è nessuno che li aspetta, che li attende. Fissi, sotto il chiaro di luna di una sera partenopea tagliano, con un temperino, delle fette da un tozzo di pane come un padre o una madre tagliano, seduti a tavola, la fetta di pane ai figli. Ma non c’è nessuna tavola , E non ci sono , neanche, né padri e né madri .

Sembra di essere a Soweto , in quell’ area urbana della città di Johannesburg, in Sudafrica, che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lotta contro l’apartheid. Ma siamo a Napoli, nella terra di una città d’Italia e nell’Europa . E le facce della terza città d’ Italia non passano da queste parti. E se vi passano li ignorano . Per non vedere. Per non sentirsi in colpa. Non sia mai “ lor signori “ con le cravatte scintillanti, i vestiti casual griffati , i sorrisi da dentifricio Durbans e da AZ 3D Ultra White al fluoro, e con le scape scarpe Nike, abbiano dei fastidi !

Lungo la strada del Corso Merdionale aspettano, i migranti, che i passeggeri a bordo di qualche macchina diano loro un saluto o quache spicciolo per un panino o per una pizza o qualche spicciolo per raggranellare, spicciolo dopo spicciolo, un gruzzoletto di pochi spiccioli per un piatto caldo di spaghetti o di minestra . Sono egiziani, capoverdiani, Rom, nigeriani, e camerumensi . Quando vendono, sul Corso Merdionale , una confezione con dieci fazzolettini di carta o puliscono i vetri delle macchine credono di aver trovato il posto di lavoro . E che la vita metta per loro i contributi per una pensione fantasiosa, immaginaria. Sorridono come nessuno sa più sorridere. Ma sono pochi i migranti che hanno trovato un posto di lavoro .

Lo sbando di Piazza Garibaldi, la situazione di crisi e confusione di quel piazzale che si apre davanti alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, aspetta. Sono donne giovani e ragazze, donne adulte, uomini giovani e ragazzi, uomini adulti. Portano i loro trolley e le loro buste di plastica così come i migranti italiani che partivano, nel dopoguerra, per andare a ricostruire le Città del NordItalia , della Baviera e della Renania, e per le miniere di carbone del Belgio portavano le loro “ valigie di cartone ” e il loro più o meno voluminoso involucro,  – la “ mappata “ , – racchiusa maldestramente in una scatola di cartone.

Ma le fette di “ pastiera “  dei migranti non hanno il sapore dolce dell’ antichissimo dolce pasquale partenopeo. E né hanno il colore giallo-oro molto intenso del suo morbido ripieno, né il sapore e il profumo morbido della ricotta del grano bollito delle uova delle spezie e dei canditi, né il suo involucro di pasta frolla che racchiude il morbido ripieno ha il sapore croccante dei millefiori . Sono loro, i migranti, i “millefiori “ che molti hanno dimenticato. Sono loro, i migranti, i “millefiori “ che squarciano il velo del loro oblio che copre pudicamente le loro dimenticanze, la loro “ rimozione “ , la loro “ perdita di memoria “  della storia italiana delle migrazioni che uscendo, da uno scaffale di una vecchia libreria, dalle pagine polverose de “ Les Fleurs du mal “  di Charles Baudelare  illuminano la ferocia della loro perdita di memoria, della loro rimozione .

Hanno, i migranti, “ Lontananze ”  che si capiscono con gli occhi, si toccano con mano. E se, talvolta, il vino delle scatole di cartone da pochi spiccioli, – la “ droga dei poveri ” , – sale troppo alla testa si azzuffano fra di loro per futili motivi, per un’ amore, per una donna, per un pezzo di cartone dove sdraiarsi sopra in qualche posto di stramacchio, nascosto , furtivamente lontano da occhi indiscreti, per ripararsi dal sole dal freddo dal vento dalla pioggia.

Nelle società del capitalismo contemporaneo e del liberismo mercatista, basta premere un dito sulla tastiera del telefonino per prenotare un biglietto per un comodo posto su di un treno o su un areo diretto a Barcellona, a Madrid, a Parigi, a Lione, a Vienna, a München . Il dito dei migranti si alza, invece, ad indicare una stella fissa . Una stella che illumina, per quanto strano possa sembrare, quei denti mal lavati, quei volti assonati e sorridenti, eppure sempre in cammino, che cercano un nuovo giorno per fame di conoscenza, di cibo e di libertà .

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