Archivi del mese: luglio 2015

Neanderthaliani del Circeo

circeo per bolg

 

 

Neanderthaliani del Circeo

 

I.

Antefatto

Era il 24 febbraio 1939 e alcuni operai di A. Guattari scoprono l’apertura di una piccola grotta che prenderà il suo nome; all’interno c’è il cranio di un neanderthaliano.

L’imboccatura della grotta è ostruita da sedimenti dell’ultima glacaizione ( Würm antico) (1) che hanno permesso la conservazione di una paleosuperficie su cui poggiano frammenti di calcare, ossa di vari animali ( fra cui iene) e un cranio : osservazioni dettagliate consentiranno al paleontologo Alberto Carlo Blanc di attestare che il cranio aveva la base fratturata e che si trovava nella parte più interna della grotta circondato da pietre disposte a cerchio. E’ sulla base di queste osservazioni che il reperto è stato considerato, fino ad oggi, un documento significativo di una complessa pratica di cannibalismo.

Questa interpretazione è oggi posta in discussione da alcuni studiosi. A questo proposito alcuni rilevano l’assenza di tracce di scarnificazione sul cranio, presenti invece, ad esempio, sui fossili di Krapina in Croazia e forse ad Engis in Belgio; inoltre si sottolinea che la base del cranio, fratturata nell’esemplare del Circeo, è una regione molto fragile e quindi soggetta facilmente a sfaldamento naturale.

Se da un lato è posto in discussione l’intervento umano come causa della deposizione del cranio sulla superficie della Grotta di Guattari ( o “ Grotta Neaderthal ” ) , resta da spiegare, però, come il tutto possa essersi verificato naturalmente, mancando anche tracce di trasporto dovuto a carnivori o ad eventi naturali.

 

II.

La Grotta di Guattari

Guattari, proprietario dell’albergo vicino alla grotta, informò della scoperta il paleontologo Alberto Carlo Blanc che effettuò un’attenta ricognizione.

Ne (ri)portiamo la narrazione che il paleontologo Alberto Carlo Blanc rese all’Accademia dei Lincei sul ritrovamento del cranio:

“ Ai primi di febbraio di quest’anno, il cav. A. Guattari, proprietario della Villa Guattari e dell’omonimo albergo, situato ai piedi del Monte Circeo presso San Felice, mi mostrava alcune ossa di Cervidi e di Equidi, che egli aveva rinvenuto operando uno scasso nel terreno adiacente al suo albergo, a ridosso di un’eminenza di calcare liasico, costituente l’estrema propaggine orientale del Monte Circeo. Le ossa appartenevano tutte ad animali ancora viventi in Italia, e non poteva quindi giudicarsi con certezza la loro età, ma il loro grado di fossilizzazione ed il fatto che alcune mostravano segni di frattura intenzionale mi indussero a fare calde raccomandazioni al Guattari, di non disperdere il materiale che veniva trovando, e di curarne la buona conservazione, in attesa di maggiori elementi di giudizio, insistendo inoltre sul fatto che egli avrebbe ben potuto fare, occasionalmente, qualche scoperta di grande importanza scientifica, come quella di un fossile umano. Ciò mi era suggerito dal fatto che da ormai vari anni ero venuto raccogliendo, nel vigneto Guattari, dei frammenti litici attribuibili al Paleolitico litoraneo, di tipo analogo a quello dell’industria esistente nelle grotte del monte Circeo e sulla costiera pontina: il che indicava che l’Uomo paleolitico aveva percorso e forse abitato quella località, così felicemente situata dal punto di vista topografico. In un sopralluogo compiuto il 15 febbraio, constatavo che nuove ossa fossili, sempre attribuibili ai medesimi generi, erano venute in luce, e rinnovavo le mie raccomandazioni al Guattari.

Il 25 febbraio, passando a San Felice Circeo, proveniente da Napoli e diretto a Roma, ebbi dal Guattari la notizia che il giorno prima, nella prosecuzione dello scasso, e nel medesimo punto ove erano state rinvenute le ossa fossili, il suo operaio Vincenzo Ceci aveva scoperto l’apertura di un cunicolo sotterraneo: il Guattari stesso vi si era avventurato carponi, giungendo dopo qualche metro in una vasta cavità interamente oscura il cui suolo era cosparso di ossa. La mattina stessa del 25 febbraio, prima del mio arrivo a San Felice, il Guattari e l’elettricista Damiano Bevilacqua, penetrati nella grotta, e visitando uno degli antri secondari che si dipartono dal vano centrale, avevano notato la presenza di un teschio umano, giacente assieme ad altre ossa, in uno degli antri stessi. Memore delle mie raccomandazioni e conscio dell’importanza del trovamento, il Guattari lasciò il cranio sul posto, dove io stesso dovevo poi ritrovarlo poche ore più tardi.

Nello stesso pomeriggio infatti penetrai con il Guattari nella grotta, procedendo carponi nell’angusto e tortuoso cunicolo e, giunto nel vano principale, constatai che il suolo era letteralmente cosparso di ossa e corna fossili, spesso arrossate e annerite, e talvolta intenzionalmente scheggiate. Prevalevano quelle riferibili a Cervidi ed Equidi. Questi fossili giacevano qua e là, sul terreno, appena ricoperti da un lieve velo di concrezione calcarea, assumente spesso la forma di una specie di infiorescenza, composta di piccoli mammelloni calcarei, rilevati e ramificati, coralliformi. Il vano principale, che ha una forma irregolarmente ovale, e misura circa m. 3,20 x 5 e circa m. 3,65 di altezza, si dirama lateralmente ai vari antri secondari. Sulla sinistra entrando, e passando sotto un arco piuttosto basso della vôlta, si accede a due antri intercomunicanti, l’uno terminante in un piccolo lago e l’altro, di forma subovale, di circa m. 4,10 x 5,40 di diametro, dell’altezza di circa m. 1,80, e che d’ora innanzi chiamerò l’Antro dell’Uomo, contenente il teschio umano.

Questo giaceva quasi al centro dell’antro, verso il fondo, assieme ad ossa di Cervidi, Suidi ed Equidi, scheggiate, tra alcune pietre disposte circolarmente. Quando io lo vidi, il cranio giaceva sulla sua calotta con la base rivolta in alto. Ma il Guattari mi disse che lo aveva preso tra le mani e che non escludeva di averlo rimesso al posto in posizione diversa da quella in cui originariamente si trovava, ché anzi si ricordava di aver visto in primo luogo la rotondità della calotta.

Questa affermazione e la natura e distribuzione delle concrezioni calcaree aderenti al cranio mi fanno ritenere che esso riposasse con la parte occipitale in alto. Constatata immediatamente sul fossile la presenza di accentuati caratteri neandertaliani, decisi di asportarlo, giudicando imprudente di lasciarlo ulteriormente sul posto, tanto più che numerose persone (ragazzi, donne, dipendenti del Guattari ecc.) erano penetrate prima di me nella grotta e ne avevano asportato varie ossa. Non avevo con me il magnesio necessario ad una fotografia. Del resto, essendo il cranio già stato mosso, l’importanza di una sua fotografia in situ sarebbe stata relativa, ed il rischio di lasciarlo sul posto era, ripeto, troppo grande. Decisi anche di non toccare le ossa e le pietre framezzo alle quali esso giaceva, e raccolsi solo una piccola scapola di Cervide, che era in suo contatto.

Raccomandai al Guattari di chiudere l’accesso della grotta e di non lasciarvi più entrare nessuno.

Giunto a Roma, procedei immediatamente a fotografare il cranio e lo consegnai la sera stessa al prof. S. Sergi, direttore dell’Istituto di Antropologia della R. Università di Roma.

Ritornando quindi sul posto il 28 febbraio in compagnia di G. A. Blanc e di S. Sergi, mi veniva consegnata dal Guattari una mandibola umana che era stata raccolta da un dipendente del Guattari stesso, Maddalena Palombi, nell’Antro dell’Uomo, a pochi decimetri di distanza dal cranio.”

 

III.

Vivevano di caccia e pastorizia

Come viveva l’uomo di Neanderthal ? Di quali standard tecnologici disponeva ? Si stanziava all’imboccatura di grotte o al riparo di pareti rocciose, ma non sempre. Si conosconono, infatti , strutture complesse come il sito di Molodova ( valle del Dinister ) dove una complessa struttura circolare, delimitata da grandi ossa di mammuth e con all’interno più tracce di focolari, è quasi sicuramente ciò che resta di una capanna.

Viveva di caccia e raccolta: nei siti preistorici è possibile raccogliere frammenti ossei delle specie animali cacciate che documentano la selvaggina presente nel territorio circostante la capanna.

Abbondanti sono le industrie litiche (2) lasciateci dai Neanderthaliani, spesso caratterizzate da una particolare tecnica di scheggiatura che consente di ottenere reperti di forma e di dimensione desiderata (tecnica di distacco di Levollois) (3) . Senza voler entrare hic et nunc in analisi dettagliate dei complessi litici, si ricorda soprattutto che alcuni strumenti , fra cui raschiatoi, denticolati e punte, sono frequenti in questa fase della cultura umana.

Ricordiamo che una particolare industria litica presente anche nella Grotta di Guattari del Circeo, si sviluppò nell’Italia centro-meridionale : i caratteri degli strumenti appaiono condizionati dall’utilizzo di piccoli ciottoli silicei, lavorati spesso con la tecnica del distacco bipolare.

 

 

IV.

Identikit di una specie

I Neaderthalini abitarono l’Europa e il Vicino Oriente per un lungo periodo del Würm antico, fino a circa 35.000 anni fa. L’evoluzione di questa specie può essere seguita a partire da 300.000 anni fa grazie ai reperti rinvenuti in Italia e in tutta l’Europa.

Il cranio del neanderthaliano della Grotta di Guttari al Monte Circeo appartiene alla popolazione, detta “ classica “ , che occupò l’Europa occidentale e ne rappresenta la forma tipica. I fossili di questa popolazione si caraterizzano rispetto all’uomo moderno per la modesta statura (circa 1,60 m ) e la robustezza. L’anatomia dello scheletro lascia supporre, infatti, dei muscoli potenti.

Anche se la capacità cranica dei Neanderthaliani è grande, dell’ordine di 1350 – 1750 cc., comparabile a quella degli uomini moderni e anche talvolta di più, l’architettura cranica è diversa : il cranio non è sviluppato in altezza come nell’uomo attuale, ma in lunghezza; vi è, conseguentemente, un allungamento di tutte le ossa della volta cranica: frontale, parietale, temporale, occipitale. La regione della nuca è allungata, e visto di lato, il cranio mostra uno chignon, cioè una ulteriore protuberanza nella regione occipitale presente anche in fossili più antichi come il Sinatropo.

La fronte è sfuggente, poco alta e sopra le orbite si nota uno spesso torus sopraorbitario continuo che forma una vera e propria visiera. La faccia è massicia, completamente proiettata in avanti e forma un muso. Gli zigomi non si trovano in posizione frontale come nell’uomo attuale, ma in posizione laterale, nel proseguimento del mascellare che è rigonfio. Questa particolare morfologia è detta in estensione in confronto a quella dell’uomo moderno detta in inflessione .

Sul piano culturale, i Neanderthaliani ci hanno lasciato delle testimonianze riconducibili al culto dei morti, quali ad esempio le sepolture.

La complessità delle loro strutture d’abitato, delle loro industrie litiche e della loro spiritualità giusticano la denominazione per questa popolazione di Homo sapiens neanderthalensis.

I Neanderthaliani scompiono circa 35.000 anni fa quando sostituiti da un’altra forma umana venuta dall’Est, con origine probabilmente mediorientale o africana; l’Europa e quindi l’Italia si popolano così di una nuova popolazione : i Cro Magnom.

 

 

V.

Una complessa spiritualità : il culto dei morti

I Neanderthalini seppellivano i morti : è questa una testimonianza della loro complessa spiritualità. La pratica funeraria dell’uomo di Neanderthal è documenta da ritrovamenti in Europa e nel Vicino Oriente. Nessuna scoperta in proposito è stata fatta, finora, in Italia.

In Francia, si ricorda la sepoltura di Chapelle – aux – Saints , scavata nel 1908 : il defunto, con gli arti inferiori flessi, era stato posto all’interno di una fossa scavata, in parte, sul fondo roccioso della grotta. Altre sepolture sono state ritrovate sempre in Francia in epoche più recenti. Di particolare significato è stato lo scavo di deposizione di adulti e bambini nel Riparo di La Ferrassie, che ha fatto presupporre la presenza di un’area sepolcrale .

Anche nel Vicino Oriente sono state rinvenute alcune significative sepolture, tra cui quelle di Šanidar in una grotta posta piedi dei monti Zagros, nella zona del Kurdistan, oggi Iraq nordorientale. In una di queste le analisi hanno evidenziato una altissima concentrazione di pollini, tanto da far pensare che il defunto sia stato posto su un letto di fiori.

L’ultima sepoltura scoperta nel Vicino Oriente è quella di Kebara, sul Monte Carmelo ( Israele). Il defunto era in fossa in posizione supina ( il corpo sdraiato a pancia in su, quindi in posizione orizzontale, con la schiena appoggiata al terreno) con le mani raccolte sul petto. La sepoltura è priva del cranio : è probabile che un secondo intervento dei neanderthaliani giustifichi la sua rimozione.

 

 

Appendice

Note

1. La “ Glaciazione del Würm “  è l’ultimo periodo glaciale verificatosi circa 80.000 – 10.000 anni fa ( il Würm è un affluente del Danubio).
2. L’ industria litica è un insieme di strumenti di pietra.
3. La “ Tecnica del distacco di Levallois ”  è un procedimento utilizzato per ottenere delle schegge, lame e punte di forma predeterminata ( Levallois-Perret è un sito dell’Alta Senna ).

 

Bibliografia

André Leroi-Gourhan, “ Dizionario di preistoria “, Einaudi, Torino,1991
Alberto Carlo Blanc, “ Antichi giacimenti paleolitici del Lazio “, Ed. Studi Romani, Roma, 1941
Marcello Piperno e Giovanni Scichilone, “ Il cranio neandertaliano Circeo I. Studi e documenti ”, Ist.Poligrafico e Zecca dello Stato-Archivi di Stato, Roma, 1991
Atti XXVII riun. sc. IIPP, “ Applicazione di metodi matematici e statistici nell’analisi spaziale di siti del Paleolitico”, 1989
Giacomo Giacobini e Francesco D’ Errico,  “ I cacciatori neandertaliani “ , Jaka Book, Milano, 1986
AA.VV., “ I Neanderthaliani ”, Catalogo mostra permanente, Stampa Offset, Viareggio, 1986
Alberto Broglio e Janusz Krzysztof Kozłowski , “ Il Paleolitico : uomo, ambiente e culture ” , Jaka Book, Milano 1987
Carlo Perretto, “ Homo. Viaggio alle origini della storia. Testimonianze e reperti per 4 milioni di anni ” , Cataloghi Marsilio, Venezia, 1985
Fiorenzo Facchini, “ Il cammino dell’evoluzione umana”, Jaka Book, Milano, 1985
Arlette Leroi-Gourhan, “ Pollen grains of Gramineae and Cerealia from Shanidar and Zawi Chemi “, in “ The domestication and exploitation of plants and animals “ Peter J. Ucko and G. W. Dimbleby editors, Gerald Duckworth & CO LTD, London, 1969 (pp.143-148)
Franco Simeone, “La scoperta dell’aldilà. Riti e credenze all’origine dell’uomo. Immagini e passaggi nel Paleoltico superiore. “ , alfabetasx.wordpress.com , 20 dicembre 2012

Lascia un commento

23 luglio 2015 · 18:23

La leggenda di Atlantide

Città minoica

 

La leggenda di Atlantide

 

I.

Antefatto

“ Perché dicono le scritture come la vostra città distrusse un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l’Europa e l’Asia, movendo di fuor dell’Oceano Atlantico. Questo mare era allora navigabile, e aveva un’isola innanzi a quella bocca, che si chiama, come voi dite, Colonne d’Ercole. L’isola era più grande della Libia e dell’Asia riunite, e i navigatori allora potevano passare da quella alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente opposto, che costeggiava quel vero mare. Perché tutto questo mare, che sta di qua dalla bocca che ho detto, sembra un porto d’angusto ingresso, ma l’altro potresti rettamente chiamarlo un vero mare, e la terra, che per intero l’abbraccia, un vero continente . “ Così narra Platone; e continua : “ Ora in quest’isola Atlantide v’era una grande e mirabile potenza regale, che possedeva l’intera isola e molt’altre isole e parti del continente. Inoltre di qua dallo stretto dominavano le regioni della Libia fino all’Egitto e dell’Europa fino alla Tirrenia. E tutta questa potenza raccoltasi insieme tentò una volta con un solo impeto di sottomettere la vostra regione e la nostra e quante ne giacciono di qua dalla bocca. “  (1) Questa è la narrazione da cui prende origine una delle ricerche più tenaci e delle scoperte più attese, ripetutamente annunciata e altrettante volte smentita. Solo per citare qualche esempio, sono state annunciate contemporaneamente due “ scoperte ”  dell’Atlantide : una alle Bahamas, l’altra nell’Egeo! L’Atlatide, insomma, viene ritrovata fin troppe volte, e sempre con inadeguato fondamento. Ciò magrado, le ricerche ( più, ad onor del vero, dei dilettanti che dei professionisti ) continuano; ciò vuol dire che l’isola possente e felice fa parte, ormai, della nostra più amata e vissuta immaginazione.

 

Eppure, chi considera attentamente la narrazione di Platone si renderebbe conto con facilità che Atlantide è una costruzione fantastica , o almeno l’eredità di un mito, sulla cui concretezza nessuno può far conto. Si pensi al continente più vasto della “della Libia e dell’Asia ” ( dell’Africa e dell’Asia) messe insieme, al dominio esteso anche a gra parte dell’Europa. Anche la decantata ricchezza di quella terra assume, nella narrazione di Platone che prosegue con toni chiaramente fantastici : “ Possedevano tante ricchezze quante mai ne ebbero in precedenza sovrani e potenti, né mai probabilmente ne avranno in avvenire (…) Il metallo che ora è soltanto un nome, l’oricalco, veniva estratto in molte parti dell’isola ed era a quel tempo il più prezioso dopo l’oro (…) L’interno del tempio ( di Posideone) aveva la volta tutta d’avorio, screziata d’oro e d’oricalco (…) Vi collocarono statue d’oro : il dio stesso eretto sul carro alla guida di sei cavalli alati, tanto alto da toccare con la testa la volta; e intorno cento nereidi sopra delfini (…) . ( 2)

 

II.

Immaginazione senza limiti

 

E così via, in una ricostruzione fantasiosa, in cui l’immaginazione si sbriglia senza limiti. Del resto, non siamo solo noi a dirlo; già nell’antichità Aristotele fece un’osservazione tanto severa quanto appropriata, quella secondo cui una tale fantasia poteva sopravvivere solo perché il famoso continente era stato sommerso per sempre. “ L’uomo che l’ha sognato, l’ha fatto anche scomparire ”, fu la sbrigativa e disincantata soluzione del problema di Atlantide secondo Aristotele . (3)

Ma il discorso non può finire così. I miti e le leggende non nascono dal nulla, devono pur riflettere delle realtà, per quanto trasformate e alterate. Se è dunque chiaro che l’Atlatide come la descrive Platone non è mai esistita, occorre pur chiedersi da dove abbia tratto orgine la narrazione di Platone, quale ne sia stato lo spunto. Se non si può cercare l’Atlatide, si può cercare i luoghi e gli eventi che hanno ispirato l’invenzione.

 

III.

Oltre le Colonne d’Ercole

In tal senso, una prima serie di ipotesi si basa sull’indicazione che quel continente si estendeva oltre le Colonne d’Ercole , nell’Oceano Atlantico. Orbene, esiste una teoria diffusa, secondo cui vi è una dorsale sommersa nell’Oceano, che affiora nelle Azzorre e in altre isole: per questo molti “ scopritori ” hanno ritenuto che i ritrovamenti subacquei in qualsiasi punto potessero rivelare l’Atlantide. Ma l’ipotesi ha scarso fondamento: non è affatto dimostrato che la dorsale di cui si parla sia quanto rimane di un continente scomparso, anzi è versosimile che le Azzorre e le altre isole derivino da un sollevamento marino.

Se Platone immaginò un continente esteso oltre le Colonne d’Ercole , fu verosimilmente perché le straordinarie dimensioni ad esso attribuite non avrebbero potuto rientrare nel Mediterraneo. Perciò dobbiamo ritenere inattendibili le ipotesi che cercano in terre tanto remote le origini della narrazione di Platone. Al converso, è verosimile che Platone si sia ispirato a qualche luogo ed evento a lui vicino, dilatandoli nell’immaginazione, per la loro eccezionalità. Ma quale luogo, quale evento ?

In proposito si affaccia. ormai, una soluzione attendibile, anche se non certa. Nel 1967, gli scavi effettuati dal Servizio archeologico greco sotto la direzione dell’archeologo greco Spyridon Marinatos hanno riportato alla luce nell’isola di Thera ( oggi Santorino), posta nel Mar Egeo a circa cento chilometri dall’isola di Creta , una grande e florida civiltà testimoniata da edifici pubbli e privati a più piani, con sotterranei adibiti a magazzini per i viveri e a officine, vasi dipinti di altissimo pregio, anfore con resti di vino e d’olio.

 

IV.

Il violento maremoto

Lungo le pareti dei palazzi, che si datano intorno alla metà del II millennio a.C., scene dipinte e vivaci richiaman o immediatamente quelle dei palazzi cretesi, e più generalmente illuminano una civiltà diffusa in tutta l’area orientale del Mediterraneo. Ma quella civiltà ebbe una fine tanto tragica quanto improvvisa : un’eruzione vulcanica, seguita da un violento maremoto ( 4), la distrusse da un giorno all’altro, e le ceneri del vulcano giunsero fino a Creta ed altre isole dell’Egeo.

Ecco la più verosimile spiegazione della leggenda dell’Atlantide. Il dramma di quella civiltà sommersa dovette entrare nella memoria delle generazioni greche ingigantendosi nel tempo, astraendosi da contesto storico, integrandosi via via con componenti fantastiche e leggendarie. Così la tradizione dovette giungere a Platone. Il quale, si badi bene, cita la narrazione come riferita da altri, senza impegnarsi a dimostrarne la piena autenticità.

Anzi un filosofo più tardo, Posidonio di Rodi, vuole che Platone dicesse : “ Può darsi che questa storia non sia un’invenzione. “  A suo modo, dunque, il narratore dell’Atlantide avrebbe dubitato egli stesso dell’attendibilità del racconto , pur rendosi conto che sarebbe stato difficile inventarlo da capo a fondo. E’ esattemente, dopo tanto tempo, la nostra opinione .

 

Note .

1. Platone, “ Timeo “ , Capitolo III , 24 e – 25 b
2. Platone, “ Timeo “ , in : Capitolo III
3. La scettica opinione di Aristotele è deducibile da due passi di Strabone, (II, 102 e XIII, 598).
4. “Ma nel tempo successivo, accaduti grandi terremoti e inondazioni, nello spazio di un giorno e di una notte tremenda, tutti i vostri guerrieri sprofondarono insieme dentro terra, e similmente scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare; perciò ancora quel mare è impraticabile ed inesplorabile, essendo d’impedimento i grandi bassifondi di fango, che formò l’isola nell’inabissarsi.” ; Platone, in “ Timeo “ , Capitolo III , 25d

Lascia un commento

Archiviato in Uncategorized

L’Odissea perduta

12

 

 

L’Odissea perduta

 

I.

Antefatto

Il libro undicesimo dell’Odissea che gli antichi chiamarono “ Nekya “  ( “ Libro dei morti ” ) , è uno dei più alti della letteratura universale, per l’intesità vibrante del pathos che lo pervade, per l’atmosfera di struggente malinconia , per le cupe immagini di tenebra che sole possono darci la misura del coraggio dell’uomo antico.

Senza speranza di sopravvivenza o di felicità ultraterrena , egli fronteggiava con le sole sue forze il tetro mistero della fine. Intuiva tuttavia che, oltre l’estremo orizzonte, il tempo si appiattisse in una dimensione circolare ed esistesse per chi avesse varcato l’ultimo confine la possibilità della conoscenza. Inoltre, questo libro undicesimo dell’ Odissea contiene il più grande enigma dell’intero poema, il mistero dell’ultimo viaggio di Ulisse, un’Odissea perduta o nascosta, il cui significato ultimo ancora ci sfugge.

Val la pena di rilevare i termini di questa ambigua e inquitatante pagina del poema , perché qualche parziale risposta all’enigma forse si può dare. La ragione per la quale Ulisse affronta la rotta che conduce agli estremi confini del mondo per evocare le anime dei trapassati è semplice: egli vuole conoscere il futuro che lo attende, se potrà rivedere la sua patria, la sposa, il figlio che lasciò infante partendo per la guerra.

 

II.

L’ombra del vate Tiresia.

E’ la maga Circe che gli consiglia di interrogare l’ombra del vate Tiresia, attirandola fuori dall’Ade con l’odore del sangue di nere vittime sgozzate su una fossa scavata con la spada. Il rituale sciamanico è descritto miniuziosamente :

 

La nave, qui giunti, spingemmo a riva, e fuori le bestie
prendemmo; poi lungo il fluire d’Oceano
andavamo, finché giungemmo al luogo che indicò Circe.
Qui le vittime Perimède ed Euríloco
tennero: e io la spada acuta dalla coscia sguainando
scavai una fossa d’un cubito, per lungo e per largo,
e intorno ad essa libai la libagione dei morti,
prima di miele e latte, poi di vino soave,
la terza d’acqua: e spargevo bianca farina,
e supplicavo molto le teste esangui dei morti,
promettendo che, in Itaca, sterile vacca bellissima,
avrei sgozzato nella mia casa e riempito il rogo di doni;
e per Tiresia a parte avrei offerto un montone
tutto nero, quello che tra le nostre greggi eccelleva.
E quando con voti e con suppliche le stirpi dei morti
ebbi invocato, prendendo le bestie tagliai loro la gola
sopra la fossa: scorreva sangue nero fumante. ( 1)

 

Le ombre dei morti attirate dall’odore del sangue, sorgente di vita, si affollavano all’Erebo intorno alla fossa; ma Ulisse le allontana tutte con la spada, anche quella madre, che con strazio vede approssimarsi alla fossa fumante. Solo Tiresia deve bere e pronunciare il vaticinio. Alla fine il profeta tebano, dopo essersi abbevarato alla macraba fonte, pronuncia la sua profezia :

 

 

Infine venne l’anima del tebano Tiresia,
con uno scettro d’oro, e mi conobbe e mi disse:
«Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo,
perché infelice, lasciando la luce del sole,
venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo?
Ma levati dalla fossa, ritira la spada affilata,
che beva il sangue e poi il vero ti dica».
Parlava così, e io, ritirandomi, la spada a borchie d’argento
rimisi nel fodero; lui bevve il sangue nero,
poi finalmente mi disse parole, il profeta glorioso:
«Cerchi il ritorno dolcezza di miele, splendido Odisseo,
ma faticoso lo farà un nume; non credo
che sfuggirai all’Ennosígeo, tant’odio s’è messo nel cuore,
irato perché il figlio suo gli accecasti;
ma anche così, pur soffrendo dolori, potrete arrivare,
se vuoi frenare il tuo cuore e quello dei tuoi,
quando avvicinerai la solida nave
all’isola Trinachia, scampato dal mare viola,
pascolanti là troverete le vacche e le floride greggi
del Sole, che tutto vede e tutto ascolta dall’alto.
Se intatte le lascerai, se penserai al ritorno,
in Itaca, pur soffrendo dolori, potrete arrivare:
ma se le rapisci allora t’annuncio la fine
per la nave e i compagni. Quanto a te, se ti salvi,
tardi e male tornerai, perduti tutti i compagni,
su nave altrui, troverai pene in casa,
uomini tracotanti, che le ricchezze ti mangiano,
facendo la corte alla sposa divina e offrendole doni di nozze.
Ma la loro violenza punirai, ritornato.
E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,
con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,
allora parti, prendendo il maneggevole remo,
finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare,
non mangiano cibi conditi con sale,
non sanno le navi dalle guance di minio,
né i maneggevoli remi che son ali alle navi.
E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti.
Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica
che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,
allora, in terra piantato il maneggevole remo,
offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano
-ariete, toroe verro marito di scrofe –
torna a casa e celebra sacre ecatombi
ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,
a tutti per ordine. Morte dal mare
ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto
da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli
beati saranno. Questo con verità ti predico». (2)

 

Il seguito della vicenda è noto: ottenuta la risposta che gli preme, Ulisse lascia che altre ombre bevano il sangue per poter parlare con loro: la madre Anticlea, prima di tutto gli racconta lo strazio della lunga e nutile attesa del figlio che l’ha condotta alla fine : “ Il desiderio di te, splendido figlio, mi ha dato la morte ” . E poi i compagni caduti sotto le mura di Troia o nella loro casa, stroncati dal tradimento : Agamennone, Aice, Achille. Alla fine, tratta la nave in acqua, Ulisse rientra dall’Oceano in mare e torna verso l’isola di Circe.

 

III.

 

Il significato della profezia

Ci si è interrogati a lungo, già nell’antichità, sul significato della profezia di Tiresia, che in parte anticipa fatti che poi saranno descritti nel poema, come lo sbarco nell’isola di Trinachìa, la razzia dei buoi del dio Sole, il naufragio e la strage dei pretendenti, ma annuncia anche una parte che il poema non narra. Perché ?

Le risposte a questo interrogativo sono varie. Il poeta greco antico Eugammone di Cirene, per esempio, scrisse un seguito dell’Odissea intitolato “ Telegonia” . Vi si immaginava che Telegono ( letteralmente “ nato lontano “ ) figlio di Ulisse e Circe, si sarebbe messo in viaggio alla ricerca del padre. Lo avrebbe trovato ma, senza riconoscerlo, venuto a diverbio con lui, lo avrebbe ucciso con l’aculeo velenoso di una razza fissata sulla punta della sua asta. Così il poeta Eugammone di Cirene dava un senso a quel suo verso sibillino “ thánatos ex halòs “  ( “ morte dal mare “) , ma non dava soluzione al resto della profezia di Tiresia che parlava di un viaggio verso l’interno.

Fra i moderni qualcuno ha ritenuto che tutto l’intero libro undicesimo dell’Odissea sia un’aggiunta posteriore, fatta quando il poema era già concluso. In questo modo l’interpolatore avrebbe voluto dare una risposta positiva al contenzioso tra Ulisse, semplice mortale, e gli déi, in particolare Poseideone. Per gli antichi, sarebbe stato inconcepibile pensare che un uomo potesse mantenere in eterno una sfida contro un dio per cui, preannunciando un futuro sacrificio riparatore, si sarebbe risolto il contrasto.

Altri ancora pensano, invece, che la profezia di Tiresia fosse un espediente per annunciare un seguito del poema: un’Odissea, questa volta di fango e di polvere, in cui Ulisse si sarebbe allontanato dal mare attraverso desolate regioni interne e si sarebbe spinto tanto lontano da incontrare genti che non conoscevano il mare, non condivano i cibi con sale, non avevano mai visto né una nave né un remo tanto da scambiare Ulisse per un ventilabro, una pala per separare la pula dal grano trebbiato. Ancora oggi, in Anatolia ( ma anche in molti Paesi del Vicino Oriente) si trebbia il grano frantumando le spighe sotto gli zoccoli degli animali da tiro; poi, con delle grandi pale, si getta all’aria in un giorno di vento. I chicchi pesanti ricadono sul posto mentre la pula e il locco, leggeri, sono portati più in là dal vento.

 

IV.

Nel pascolo dei buoi

Il geografo e storico greco Strabone conosce il nome del luogo in cui avrebbe dovuto avvenire il sacrificio ripatore al dio Poseidone : esso si chiamava Kalkèa o, secondo altri, Boùneima ( “ pascolo dei buoi ” ) . Questi misteriosi nomi, secondo alcuni commentatori, sarebbero derivati da un poema perduto intitolato “ Thésprotis “ , di cui si ignora l’autore, e sarebbero da collocare in Thesprotia, una regione della Grecia nord-occidentale, o forse in Epiro. In ambedue le regioni, però, non esistevano “ hales horyctòi “  e cioè salgemma, per cui non avrebbe senso l’espressione di Tiresia “ non condiscono cibi con il sale” . Nel Medioevo, Dante Alighieri immaginò invece che Ulisse, incapace di vivere il resto dei suoi giorni a Itaca, facesse vela per le profondità dell’Oceano, inabissandossi davanti al monte Purgatorio. ( 3)

L’unica connessione documentaria con la Nekya dell’Odissea ci viene dall’archologia: si deve a Sotiris Dakaris (4) , un docente della University of Ioannina ( uno dei campus universitari più grandi della Grecia che comprende 17 dipartimenti accademici) la scoperta e lo scavo dell’oracolo dei morti di Efira, presso Parga. Il tenebroso santuario sorgeva presso le foci dell’Acheronte e di un’antica palude, oggi qusi totalmente interrata, che doveva identificarsi con la palude Stigia.

Sulle montagne circostanti ancora si seppelliscono i morti mettendo loro in bocca una moneta d’argento da venti dracme, l’obolo di Caronte. Qui nell’antichità si interrogavano le ombre dei trapassati e i responsi erano non di rado agghiaccianti, come ci riferisce Erodoto. Melissa, la moglie del tiranno di Corinto, interrogata su dove fossero nascosti i suoi gioielli, rispose : “ Hai messo il pane nel forno freddo” , per ricordagli l’infamia di aver giaciuto col cadevere di lei già freddo.

L’indagine archeologica ha rilevato la corrispondenza perfetta tra il rituale descritto nell’Odissea e quello che si praticava in Efira; e, ha dimostrato, inoltre, una frequentazione già dall’età micenea , ossia dai tempi in cui il mito ambientava la vicenda della guerra di Troia e dell’avventura di Ulisse.

Non sapremo mai quale fosse la meta dell’ultimo viaggio del re di Itaca, Ulisse. Forse, con le oscure parole del profeta tebano Tiresia, il poeta greco Omero volle far capire che l’avventura umana non ha mai fine e lasciarci con il pensiero dell’ultima misteriorosa Odissea , quella che varca le remote regioni prossime all’orizzonte estremo.

 

 

Note
1 . Omero, “ Libro XI “ , in “ Odissea “ , Ed. Einaudi, Torino, 1963, vv 20 -36
2. Omero, “ Libro XI ” , in “ Odissea “ , Ed. Einaudi, Torino ,vv 90 – 137
3. Dante Alighieri , “ Canto Ventiseiesimo dell’ “ Inferno ” , in “ Divina Comedia ”  a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1967.
4, Sotiris. Dakaris, “ The Antiquity of Epirus: The Acheron Necromanteion: Ephyra-Pandosia-Coassope “ , Athens, 1973

Lascia un commento

Archiviato in Uncategorized

La ballata dell’amore cieco

La ballata dell’amore cieco

In “ Ballata dell’amore cieco ”, il cantautore Fabrizio De Andrè riprese e riadattò, in chiave musicale, il testo di una vecchia poesia di Jean Richepin dal titolo “ Coeur de mère. Ballade “ .

In “Coeur de mère, Ballade”, il poeta francese Jean Richepin narra di un giovane che si innamora follemente di una donna senza scrupoli, e lei, come pegno d’amore, pretende che l’uomo le porti il cuore della madre da dare in pasto al suo cane.

Il giovane, accecato dall’amore, acconsente, e dopo aver strappato il cuore dal petto della madre corre a perdifiato dall’amata. Mentre corre il giovane scivola e fa cadere il cuore della madre; la poesia “Coeur de mère. Ballade” si conclude con il cuore che inizia a parlare, e preoccupato chiede al figlio se si sia fatto male.

 

“Il y avait une fois un pauvre gars
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Il y avait une fois un pauvre gars
Qu’aimait celle qui ne l’aimait pas
Elle lui dit apporte moi demain
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Elle lui dit apporte moi demain
le coeur de ta mère pour mon chien
Va chez sa mère et la tue
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Va chez sa mère et la tue
Et prit le coeur et s’en courut

Comme il courait il tomba
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Comme il courait il tomba
Et part terre le coeur tomba
Et pendant que le coeur roulait
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Et pendant que le coeur roulait
Entendit le coeur qui parlait
Et le coeur disait en pleurant
Et lon lon laire / Et lon lon la /
Et le coeur disait en pleurant
T’es-tu fait mal mon enfant ?”

(Jean Richepin, “ Coeur de mère. Ballade .” )

 

In “Coeur de mère. Ballade”, il poeta francese Jean Richepin descrive le tre forme in cui l’amore si configura sulla terra, nelle modalità più estreme in cui si può manifestare, e presentare.

Vi è l‘ “eros” , l’amore del folle innamorato, che arriva al punto di strappare il cuore alla propria madre per accontentare la propria amata ; vi è l’ ”amor proprio ”, che si incarna nella giovane e crudele donna che gode nel vedere un uomo compiere dei gesti estremi per ottenere il suo amore; e, vi è, infine, l’ “amore incondizionato” della madre, che continua ad amare e a preoccuparsi del figlio anche dopo che questi è arrivato al punto di ucciderla .

 

Lascia un commento

Archiviato in Uncategorized