Archivi del mese: luglio 2013

Ad alcuni piace la poesia.

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Ad alcuni piace la poesia.

Immagini e passaggi nella poetica di Wisława Szymborska

 

Ogni tanto mi metto a fare un elenco degli ultimi libri che ho letto e di quelli che mi (ri)prometto di leggere ( la mia vita funziona a base di elenchi: rendiconti di movimenti di “esplorazioni ” studi- ricerche, rendiconti di movimenti di ricerca svolti e da svolgere, rendiconti di movimimenti di ricerca lasciati in sospeso per ragioni dell’interrogare-interrogarsi, ecc …). Nei libri del mese di giugno- luglio m’accorgo per una strana coincidenza che c’è un tema riccorrente : i colori. Ho letto un poema persiano mediovale, “ Le sette principesse ”  di Neẓāmi-ye Ganjavī dove i sette colori corrispondono ognuno ad un campo allegorico a sé stante; poi il “ Libro d’ombra ” del giapponese Jun’ichirō Tanizaki in cui si parla delle “infinite gradazioni del buio” ; naturalmente ho letto le “ Osservazioni sui colori ” di Ludwig Wittgenstein per il quale i colori si possono definire solo sul piano del linguaggio; e queste osservazioni di Wittgenstein m’ha spinto a (ri)leggere la “ Teoria dei colori ”  di Johann Wolfgang von Goethe e “ L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione ”  di Ruggero Pierantoni.

Ma prima di tutti questi libri ne avevo letti altri tre di cui subito avevo tracciato degli appunti, – scritti, come sempre, rigorosamente in “tedesco” col lapis ; – di cui avevo avuto voglia di scrivere delle immagini e passaggi, ma che avevo tenuto finora in sospeso, come succede coi libri in cui le cose interessanti sono tante, troppe. Ed ecco che tutte le altre letture vengono a collegarsi a questi tre libri, perché anche questi tre libri parlano, per molti versi, dei colori. E sono i colori degli individui e dei loro problemi di sempre, delle loro angosce e dei loro dubbi, della loro vita e del loro dolore.

Ad alcuni piace la poesia. Ad alcuni / cioè non a tutti. / E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza / Senza contare le scuole, dove è un obbligo, / e i poeti stessi, / ce ne saranno forse due su mille. // Piace – / ma piace anche la pasta in brodo, / piacciono i complimenti e il colore azzurro, / piace una vecchia scarpa, / piace averla vinta, / piace accarezzare un cane. // La poesia – / ma cos’è mai la poesia? / Più d’una risposta incerta / è stata già data in proposito. / Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo / come alla salvezza di un corrimano ”  (1).

La poesia è qualcosa di dannatamente serio – la poetessa polacca Wisława Szymborska sembra dire a mezza bocca, ( “tongue-in-cheek”, direbbero gli anglosassoni) per non far capire che ci crede veramente. Perché, nonostante l’ironia e l’understatement che non erano certamente mai piaciuti ai burocrati del socialismo culturale “reale” dei Paesi dell’Est ( i “burocrati dello spirito” sono sempre peggiori dei puri e semplici passacarte perché credono in quello che fanno e vorrebbero che ci credessero anche gli altri “operatori culturali”; i burocrati “semplici” sovente non pensano e basta), alla forza della poesia Wisława Szymborska doveva crederci per forza, non foss’altro che per sopravvivere al grigiore e alla monotonia della vita nel suo paese, la Polonia.

Come Zbigniew Herbert, rifugiatosi in Italia (2) o Czeslaw Miłosz (un altro grande poeta e saggista polacco, esiliato in America, dove vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1980), anche Wisława Szymborska scriveva per riuscire a sopravvivere e continuare a sperare. Il successo era qualcosa da considerare impossibile in un clima come quello del “socialismo reale”. La potica di Wisława Szymborska , tuttavia, non era una poesia “politica” nel senso di socialmente “impegnato” che si è soliti dargli in Italia (e mica solo in Italia) . La poetica di Wisława Szymborska non attaccava istituzioni e società, modo di governare e dimensione statuale – parlava soltanto degli individui e dei loro problemi di sempre, delle loro angosce e dei loro dubbi, della loro vita e del loro dolore – forse per questo faceva più paura di tanta poesia militante e ideologizzata. E  Wisława Szymborska ammonisce pensosamente che non cambia mai molto nell’esercizio del bio-potere sui corpi:

Nulla è cambiato. / Il corpo prova dolore, / deve mangiare e respirare e dormire, / ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue, / ha una buona scorta di denti e di unghie, / le ossa fragili, le giunture stirabili. / Nelle torture di tutto ciò si tiene conto // Nulla è cambiato. / Il corpo trema, come tremava / prima e dopo la fondazione di Roma, / nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo, / le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola / e qualunque cosa accada, è come dietro la porta. // Nulla è cambiato. / C’è soltanto più gente, / alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove, / reali, insinuate, temporanee e inesistenti, / ma il grido con cui il corpo ne risponde / era, è e sarà un grido di innocenza, / secondo un registro e una scala eterni. // Nulla è cambiato. / Se non forse i modi, / le cerimonie, le danze. / Il gesto delle mani che proteggono il capo / è rimasto però lo stesso. / Il corpo si torce, dimena e svincola, / fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, / illividisce, si gonfia, sbava e sanguina. // Nulla è cambiato. / Tranne il corso dei fiumi, / la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai. / Tra questi paesaggi l’animula vaga, / sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, / a se stessa estranea, inafferrabile; / ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c’è, c’è e c’è / e non trova riparo ”  (3).

Il corpo c’è – ed è quello che conta per chi soffre e non vorrebbe, per chi prova dolore per la propria carne martoriata e umiliata e non vorrebbe, per chi si sente costretto a dire ciò che preferirebbe tenere nascosto e che si sente così violentato due volte (nel corpo e nello spirito). Se “Nulla è cambiato”, cambia la consapevolezza del fatto che la vita e la morte ormai sono fatti pubblici, eventi politici, momenti sociali di cui si discute e che vengono decisi e determinati in pubblico invece che nel chiuso delle coscienze o negli interieurs personali. Cambia l’idea della “privatezza” dei corpi e si impone la loro esibizione “oscena” nei luoghi della comunicazione di massa.

Il dolore non cambia mai, invece – continua a martellare imperterrito e a far dolere i corpi e le anime in un sempiterno concerto di sofferenze e di morti annunciate.

Wisława Szymborska non può fare molto al proposito se non mostrarlo con le parole della sua poetica, questo continuo e disumano processo di negazione dell’umanità, questo violento strappo alle regole dell’amore e della civiltà dei rapporti reciprocamente tolleranti. Le parole dei poeti, è noto, servono a poco ma vanno pronunciate lo stesso: Wisława Szymborska non ritiene opportuno tirarsi indietro ma intende continuare a parlare con il tono pacato del suo verso libero, della sua smilza retorica tenuta il più bassa possibile di tono, con la sua ironica capacità di cogliere la verità in maniera leggera, senza sobbalzi, senza esplosioni, senza incendi. Ma l’ironia può essere molto più efficace della rabbia e della trombonesca esibizione dei buoni sentimenti, così facile nelle buone cause ma inutile per quelle più difficili da portare avanti. I poeti non sono oratori né “tamburini” per una causa. Il loro compito è condividere il dolore del mondo e provarsi a stemperarlo con un sorriso ironico e privo di compiacimento per se stessi. Wisława Szymborska non si è mai fatta illusioni in proposito e ha continuato a scrivere fino alla sua fine avvenuta 1º febbraio 2012, a Kraków (Cracovia), alternando “memoria e desiderio”, contemplazione e senso di distacco, col suo spirito arguto e disincantato che le ha permesso di guardare alla vita e di raccontarla con i suoi versi assolutamente unici. E come poetessa Wisława Szymborska sapeva bene quello che meritava di essere scritto:

Scrivere il curriculum. Cos’è necessario ? / E’ necessario scrivere una domanda, / e alla domanda allegare il curriculum. // A prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve. / E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti. / Cambiare paesaggi in indirizzi / e ricordi incerti in date fisse. // Di tutti gli amori basta quello coniugale, / e dei bambini solo quelli nati. // Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. / I viaggi solo se all’estero. / L’appartenenza a un che, ma senza perché. / Onorificenze senza motivazione. // Scrivi come se non parlassi mai con te stesso / e ti evitassi. // Sorvola su cani, gatti e uccelli, / cianfrusaglie del passato, amici e sogni. // Meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto. / Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano. / Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. / E’ la sua forma che conta, non ciò che sente. / Cosa si sente? / Il fragore delle macchine che tritano la carta» (4).

Il miglior curriculum di Wisława Szymborska è la sua poetica libera ( non i premi che ha vinto o le onorificenze che ha ricevuto – anche se spesso fanno indubbiamente piacere) .

 

Qui giace come virgola antiquata

l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata

dell’eterno riposo, sebbene la defunta

dai gruppi letterari stesse ben distante.

E anche sulla tomba di meglio non c’è niente

di queste poche rime, d’un gufo e la bardana.

Estrai dalla borsa il tuo personal, passante,

e sulla sorte di Szymborska medita un istante. (5)

 

Ormai Wislawa Szymborska non c’è più, ma la sua poesia resta. E che la terra le sia lieve!

 

 

Note

1. Wislawa Szymborska , “Ad alcuni piace la poesia”, in “ La fine e l’inizio ”, trad. it. e introduzione di Pietro Marchesani, Schweiller Ed., Milano,1997, p. 21

2. Su Zbigniew Herbert si leggano le pagine commosse e, nello stesso tempo, scanzonate che su di lui scrive F. M. Cataluccio nel suo “Vado a vedere se di là è meglio” , Ed. Sellerio, Palermo2010, pp. 150-164.

3 Wislawa Szymborska , “ Torture ” , in  ” Gente sul ponte ”, trad. it. e introduzione di Pietro Marchesani, Schweiller Ed., Milano,1997 , pp. 61-63

4. Wislawa Szymborska , ” Gente sul ponte “  cit. , pp.68-69

5. Wislawa Szymborska , ” Epitaffio “, da ” Sale “ , trad. it. e introduzione di Pietro Marchesani, Schweiller Ed., Milano, 2005. La raccolta “Sale” è del 1962.

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